L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mariella Devia è Elisabetta Tudor in Roberto Devereux a Genova

Il gesto per la regina

 di Francesco Lora

Nel Roberto Devereux al “Carlo Felice” di Genova convergono Antoniozzi regista, una compagnia con Devia, Ganassi e Pop, e un direttore come Lanzillotta: ed ecco fatto uno spettacolo d’opera come sempre dovrebbe essere.

GENOVA, 24 marzo 2016 – Registi, scenografi e costumisti all’opera: si sa che oggi il famolo strano parte dall’incaricare dilettanti, volonterosi, figli di, fautori di scandaletti, gente che viene da altre forme di spettacolo e che non si è mai deliziata gli orecchi e sporcata le mani con il melodramma. Così, ci si chiede oggi: cosa accade se a occuparsi del palcoscenico sono persone che conoscono come le loro tasche il teatro d’opera, il tempo della musica, il lavoro con il cantante, il flusso delle masse e il pregresso del melomane? Lo si sta dimenticando. E a ricordarlo, ecco che arriva un Roberto Devereux di Donizetti al Teatro “Carlo Felice” di Genova: cinque recite dal 17 al 29 marzo, sala difficile da riempire, anima operistica che invece straripa.

Regista è Alfonso Antoniozzi, il baritono buffo che sa cantare, recitare, leggere, scrivere, ragionare, comunicare, insegnare e strigliare; gli mancava solo dirigere uno spettacolo teatrale, e da qualche anno vi è arrivato, con la naturalezza e la maturità di chi se lo fosse prefisso nella vita. La sua è una lettura tradizionale nel rispetto della didascalia, erudita nei riferimenti visivi al teatro elisabettiano, scaltra nella conoscenza del mestiere di tutte le parti. Lo dimostrano anche le scene di Monica Manganelli, ispirate alle strutture già calcate da Shakespeare, e lo dimostrano i costumi di Gianluca Falaschi: capolavori di sartoria dove l’economia dei materiali simula e supera il più favoloso sfarzo, e dove l’abito stesso diviene strascico psicologico del personaggio e parte integrante di palco e fondale.

Va da sé, il lavoro del regista balena soprattutto nel lavoro con gli attori, e nella sintesi spesso geniale e sempre leggibile di tutti i contributi. Un esempio solo, se no non si finirebbe mai di raccontare: nel quadro conclusivo, con il tracollo di Elisabetta Tudor che troppo ha tirato la corda regale e amorosa, è in scena la massima belcantista italiana, tacciata per lunga consuetudine di poca intraprendenza recitativa; il regista mostra la regina d’un tratto decrepita, non più trasfigurata dall’apparato, e fa intonare il cantabile al soprano seduto, immobile, così che, quando ella alza una mano, quel gesto emerso dal nulla sfoga forza decuplicata e fa saltare all’indietro il pubblico; quando poi Elisabetta si leva dal trono, lamentandosi tra sé, ecco svolgersi l’infinita coda dell’abito da camera, un vero e proprio arazzo, subito issato, dove si vede la mappa dei dominii britannici e lo strazio della persona tra ruolo e cuore. Da tanto e troppo tempo non si era vista una primadonna meglio servita.

Il resto riattesta uno spettacolo eccellente, tra eterne conferme e sorprese insperate. La primadonna è Mariella Devia, in parte di impegno massimo. La sua forma vocale, se non è la stessa di vent’anni fa, è di certo quella intatta dell’ultimo decennio: prende fiato quattro volte in tutta la sera e tiene appeso l’uditorio, quando e come vuole, a quei suoi suoni siderei. Il tenore, nella parte eponima, è Stefan Pop. Chi scrive non lo conosceva e ora non lo dimenticherà più: estensione facile in ogni luogo e direzione, timbro accattivante con ombre baritenorili, porgere sempre appassionato e fragrante. Nella ripresa della cabaletta si ascoltano pure variazioni abbondanti, ardite e di gusto fino. Ci dicano che questo signore voglia fare un pensierino sul Rossini per Nozzari, e diversi problemi melomaniaci dei prossimi quindici anni potrebbero essere risolti.

Come Sara v’è poi Sonia Ganassi, qui lussuosa e infuocata non meno che nella sua Giovanna Seymour dell’Anna Bolena e ben più che nella sua Elisabetta della Maria Stuarda: è oggi l’unica pari grado, in altro registro e con longevità probante, dell’irraggiungibile Devia. Al suo fianco cerca tuttavia di contenderle l’applauso il baritono Mansoo Kim, “doppio” di Marco Di Felice alla recita qui recensita, capace di un Duca di Nottingham così all’italiana da ben legare i suoni, esibire acuti rigogliosi e contaminare vanitosamente le ‘u’ in ‘o’. Comprimariato di razza: Alessandro Fantoni, come Lord Cecil, e Claudio Ottino, come Sir Gualtiero, cantano senza pecca veruna, con l’impegno di un doppio cammeo. Ideale non con pretesa di assoluto, ma sicuramente in questo relativo, è la direzione di Francesco Lanzillotta. Egli conosce a fondo questo repertorio e lo ama, sa accompagnare il cantante e tutelare l’autore, si guarda bene dal peccare in tagli di tradizione. Gli si può imputare solo di aver ammesso l’intervallo tra gli atti I e II e l’accorpamento degli atti II e III, quando in realtà l’atto II sarebbe il Finale dell’atto I, da tenere là unito ogni volta che sia possibile. Ma se ci si va ad arenare su un cavillo drammaturgico e musicologico, vorrà davvero dire che tutto è andato molto, molto bene.

foto Marcello Orselli


 

 

 
 
 

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