La traviata secondo Valentino
di Stefano Ceccarelli
Il Teatro dell’Opera di Roma ha dimostrato di saper organizzare un perfetto evento di gala. Ha messo insieme nomi altisonanti: Sofia Coppola, alla regia, Valentino Garavani ai costumi. Ha messo in scena una delle più amate opere al mondo: La traviata di Giuseppe Verdi. Les jeux sont faits: ben sedici recite (che si accavallano fra maggio e giugno), biglietti esauriti da tempo, una première con red carpet stellato. Peccato che a un evento di tale richiamo non sia corrisposta una performance adeguata alle firme impiegate. Statica, tradizionalistica, piatta, la regia della Coppola, al suo debutto assoluto in un teatro d’opera, solo ravvivata dalla tavolozza misurata dei colori pensati da Valentino per i costumi (stagliati, peraltro, sulle anonime scene di Nathan Crowley). Altalenante la prova del cast dei cantanti: la Dotto sbaglia nettamente l’approccio al ruolo, incartandosi in una visione che accoglie triti e vieti tradizionalismi e non donandoci alcun carattere del personaggio; migliore l’Alfredo di Poli, bravissimo Frontali in Giorgio Germont. Assai buona la direzione di Jader Bignamini, eccetto talune scelte. Un evento, dunque, più commerciale, di richiamo appunto: che speriamo, comunque, avvicini maggiormente il grande pubblico alla lirica.
ROMA, 31 maggio 2015 – Ogni volta che – trovandomi davanti a un teatro dell’opera – attendo di entrare a vedere una Traviata, m’incorre un piccolo, eppur perfettamente avvertibile nodo alla gola. È una sensazione strana, come di qualcosa di dolceamaro: è una paura di insoddisfazione, in fondo, di non emozionarsi per qualcosa che si ama particolarmente. Di paura che qualcosa non vada come si vorrebbe. E pensare che La traviata, alla sua storica prima, fece uno di quei grossi fiaschi che Rossini avrebbe amato disegnare nelle sue lettere; questo prima di diventare un’opera feticcio. Opera di grande, intenso sperimentalismo, non solo per l’argomento (assai scabroso, per l’epoca) ma anche per le scelte strutturali/compositive: Verdi raggiungeva la maturità di uno stile prettamente teatrale – mai sforzatamente teatrale per fortuna –, di ascendenza più shakespeariana che squisitamente melodrammatica. Per fortuna il pubblico, dopo un primo approccio brusco, si accorse subito di queste innate doti della partitura verdiana: purtroppo per la partitura, però. Da quel momento La traviata ha subito il destino che Pasolini esemplificava col formaggino onnipresente in TV: è entrata in tutte le case, tutti conoscono Traviata, tutti piangono per Traviata. Traviata è sublime – gridano in coro. Sì, è vero: è sublime eccome! Ma perché lo è? Perché è Traviata – rispondono in coro. L’amore per Traviata è una tautologia in sé: è amore per l’amore (o dell’amore, vista e considerata anche la trama). Traviata è la quintessenza dell’opera. Suo malgrado, aggiungerei, e a suo gran detrimento. Come per altre partiture (Il barbiere, sopra tutte), Traviata dovrebbe essere riposta in un cassetto per lungo tempo, eseguita di rado, ma con consapevolezza piena dell’intenzionalità verdiana e dell’intrinseca bellezza del titolo come di opera che ruppe con la tradizione come pochi altri capolavori vi riuscirono, non come mera sfilata di motivetti che si riconoscono giacché assai famosi.
Il Teatro dell’Opera di Roma ne La traviata vede un titolo di grandissimo richiamo, un titolo che è anche una scelta di marketing – né mi sentirei, chiaramente, di biasimare tale scelta. Anzi, insolitamente, questa nuova produzione ha avuto un’eco smisurata rispetto – come penso – alla qualità della stessa. La presenza di nomi altisonanti come Sofia Coppola e il celeberrimo stilista Valentino, simbolo di un’eleganza tutta italiana dal sapore antico, hanno sollevato un’eco mondiale, facendo registrare veri e propri record d’incassi di biglietti e permettendo, alla première, la presenta di patinatestelle del jet set italiano e hollywoodiano – per citare solo alcuni nomi: le attrici Keira Knightley e Monica Bellucci, ma anche Kim Kardashian, regina dei rotocalchi.
La sostanza performativa di questo nuovo allestimento, però, lascia alquanto a desiderare. I fattori concomitanti non sono, per la verità, molti, ma sono purtroppo centrali, midollari: una regista evidentemente impacciata su un palcoscenico teatrale e operistico, alcuni cantanti per nulla centrati nei rispettivi ruoli e scene di un gusto stantio, prive non solo di originalità (ché sarebbe bastata una buona fotografia della Parigi di metà ‘800) ma anche di raffinatezza, di una raffinatezza zeffirelliana, per intenderci, che invece tentano di emulare.
Sofia Coppola, figlia d’arte, è una regista cinematografica, non d’opera. E s’è visto. Nessuno dei suoi personaggi è uscito realmente tornito, completo, definito e finito. Ha semplicemente abbozzato caratteri, del resto perfettamente sedimentatisi nella tradizione, nella consuetudine rappresentativa de La traviata. Quello che i cantanti hanno fatto sul palco è stato frutto di una loro precipua interpretazione più che di un reale lavoro registico: la Coppola ha una firma scolorita, propone una regia diafana, palesando la mancanza di gusto per il dato squisitamente teatrale – che si raggiunge, certo, solo con la frequentazione assidua dei teatri d’opera e con una certa qual predisposizione per questa forma d’arte, affatto differente dal cinema. Pochi i momenti che rimangano positivamente impressi: l’intermezzo dei fuochi d’artificio durante la festa da Flora nel II atto; l’uscita, ex abrupto (in sé molto cinematografica e lontana dall’uso) di Germont padre dalla folla per difendere l’onore di Violetta (finale II); la discesa di Violetta dalla marmorea scala nel preludio all’atto I e l’improvviso inizio della festa all’attaccare dell’Introduzione; la luce sparata frontalmente nel finale, che sfuma la vicenda in un quadro di silhouette contornato di luce; le danze di carattere nella festa di Flora. Moltissimi i momenti noiosi o proprio impacciati: i rigidi movimenti dei personaggi (soprattutto le entrate e le uscite dei comprimari), la staticità del coro e delle comparse (esiziale quella del finale II, durante il drammaticamente intenso svergognamento di Violetta) e molto altro.
Le scene sono, appunto, stantie, tutte in prospettiva centrale: ciò dà una sola prospettiva di fruizione allo spettatore. Le scene festive sono altresì le più curate: la scala marmorea nel I atto (l’unica vera novità scenografica) risulta però più d’impaccio e d’ingombro, mal e poco utilizzata (terribile la scelta di far cantare Violetta nel finale I lì sopra). In ogni caso, all’occhio non spiacciono le ampie vetrate contornate da tendaggi e i grandi lampadari, benché certo di gusto alquanto naïf. Le peggiori scenografie sono quelle del primo quadro del II atto e del III. Enormi arbusti contenuti in esili vasi cinesi (sorta di enormi bonsai) inquadrano una disadorna scena in una serra di campagna, troppo didascalica e affetta da eccessiva naïveté. Pessimo il letto centrale nel III, con una finestra alle spalle realizzata in modo maldestro (peraltro non logicamente usata nella regia).
Vero elemento di pregio visivo della mise en scène sono, indubbiamente, gli splendidi costumi di Valentino, d’un Valentino classico e sommamente elegante. Anzi, proprio Valentino è forse la firma di grido, la vera star di questa produzione. La fantasia del genio della sartoria italiana si concentra soprattutto sui costumi femminili, incardinati sulla semplice opposizione cromatica bianco/nero: tulle come se piovesse, dolcemente sbalzati, tessuti finissimi e trapunti di sfumature dorate e argentee, oppure scure a seconda dei casi, adornano le donne, cui Valentino disegna costumi ispirati più a uno stile fin de siècle (anzi, quasi belle epoque), ma con una sobria linea che cade a stile impero. Flora e Violetta sono omaggiate da costumi particolarmente curati; i due delle feste di Violetta sono particolarmente d’effetto, in particolare il secondo: Violetta entra alla festa al braccio del barone con un elegantissimo abito di un classico rosso Valentino, con tanto di una mantellina a velo finemente trapunta e strassata in oro e una maschera stile Eyes Wide Shut.
La direzione musicale, affidata al bravo Jader Bignamini, è tra gli elementi indiscutibilmente positivi della produzione. Bignamini sente La traviata con patetismo e dolcezza, non rinunciando alla brillantezza dei passaggi festivi, ma affidandosi a un’agogica dalla mano sensibile e misurata, capace sempre di esaltare le emozioni del canto e di evocare sentimenti di squisita malinconia, che sono la cifra più caratteristica della partitura verdiana. Talune scelte tecniche, però, non mi sono chiarissime: perché far ripetere solo alcune cabalette, mentre altre no («Oh mio rimorso! Oh infamia!» di Alfredo e «No, non udrai rimproveri» del padre)? Perché concedere l’interpolazione del mi bemolle sovracuto alla Dotto peraltro eseguito come peggio non si poteva? Bisognerebbe sempre accogliere una lettura la più pulita possibile del testo verdiano – magistrale, depurata, vero modello di gusto, in tal senso, è l’edizione di Muti con la Scotto e Alfredo Kraus. Bignamini è un direttore fresco, che sta acquisendo notevole e positiva esperienza, e che sta dimostrando soprattutto di sentire magnificamente la scrittura verdiana: peccato per qualche scelta poco azzeccata.
Il cast vocale è risultato d’altalenante valore. La peggiore in sala è stata certamente la Violetta di Francesca Dotto: passi che possa aver incontrato una serata particolarmente negativa, ma sono imperdonabili i numerosissimi errori tecnici e interpretativi. In tal senso, l’atto peggiore è stato il I: l’impervia scrittura della protagonista, tutta noticine, volatine, picchiettati, improvvisi acuti, viene eseguita con piglio sforzato, inadatto alla voluta freschezza della parte, che occhieggia a un soprano leggero (Verdi sarebbe stato contento di una lettura come quella della Scotto, per esempio diretta da Votto). Ove Violetta dovrebbe librarsi leggera, frizzante, la Dotto l’appesantisce emettendo un suono vibratile, querulo, dall’emissione forzata, perdendo tutta la brillantezza, perdendo sovente l’abbrivio, perdendo naturalezza nel fraseggio. (Del resto, la Kabaivanska – regina di intelligente interpretazione – ammise, in un’intervista a Gualerzi, la quasi ineseguibilità di alcuni passaggi della scrittura di Violetta nel I – nemmeno la Callas e la Olivero v’erano riuscite − e con suo rammarico disse di aver frequentato poco Violetta, il carattere femminile più completo e complesso della storia dell’opera, proprio per questi pochi passaggi). Il peggio arriva alla fine della cabaletta che chiude l’aria, pur certo non ben eseguita, del I atto («Follie! Follie! Delirio vano è questo!»): s’affaccia un goloso mi bemolle, trita e vieta sovrascrittura al testo verdiano, sfoggio meramente ginnico, che la Dotto emette stonato, gridato, orpello perfettamente inutile, a rovinare definitivamente un atto già di per sé pessimo. Nel II le cose migliorano lievemente: il suo naturale timbro lamentoso ben si addice ai dolori psicologici che Violetta deve subire da Germont padre e il loro duetto scorre nel complesso senza intoppi; la Dotto azzecca anche qualche recitativo, con più calore e consapevolezza (la scrittura della lettera). Arrivati al celeberrimo «Amami Alfredo», che non si libra molto oltre il suono orchestrale, il pubblico rimane gelido, impassibile: non un applauso si leva, anzi gli applausi sono tutti per la successiva aria di Germont padre. Il III atto è il migliore dei tre: la Dotto è certamente dotata come attrice e la sua presenza scenica si lascia meglio apprezzare di quella canora. Al solito, esagerata e infarcita di effettacci risulta la lettura della lettera: ma, del resto, poche si salvano in questa parte, per esempio la Olivero, la Tebaldi, la Kabaivanska, la Scotto, la Freni e la Netrebko. Applaudita la romanza «Addio, del passato bei sogni ridenti», che in effetti è la sua miglior performance; il resto dell’atto scorre senz’infamia e senza lode.
L’Alfredo di Antonio Poli è vocalmente ottimo: Poli ha un naturale dono, che farebbe bene a preservare intatto il più a lungo possibile, una voce dall’emissione facile facile, tersa, pulita, piena, squisitamente tenorile, in una parola, pavarottiana. Peccato non sia riuscito a scontornare adeguatamente il personaggio, che risulta impacciato in più punti della performance (colpa, soprattutto, delle negligenze registiche della Coppola). Alcuni momenti risultano ottimi: l’aria di sortita del II atto («De’ miei bollenti spiriti»), certi fraseggi dei concertati (quello del finale II, in particolare), il tempo d’attacco del duetto del III («Parigi o cara noi lasceremo»).
Il cantante migliore della serata, per interpretazione e tecnica, è certamente Roberto Frontali, che possiede però un timbro baritonale talmente penetrante (oserei definirlo quasi viperino) da esaltare forse troppo il lato oscuro del personaggio, un timbro alla Tito Gobbi: eppur sa fraseggiare con maestria, dosando il volume, trovando effetti inusitati, da vero animale da palcoscenico (i romani rammenteranno il suo recentissimo, stratosferico Michele). Assai applaudito è stato il cantabile della sua aria, «Di Provenza il mare e il suol chi dal cor ti cancellò?».
La Flora di Anna Malavasi è frizzante, dalla tripudiante voce; l’Annina di Chiara Pieretti ha voce dolce e comprensiva. Buona la performance del coro, che si lascia apprezzare nella resa della difficile stretta dell’introduzione I («Si ridesta in ciel l’aurora») e nelle scene bozzettistiche del secondo quadro del II atto.
Uno spettacolo, insomma, più appariscente che di schietta sostanza. Un evento di gala: con i pregi e i difetti del caso. Certo questa Traviata non mi ha fatto aggrovigliare le budella, come direbbe Vivian (Julia Roberts in Pretty Woman): magari a altri ha fatto questo effetto, altri che si spera frequenteranno più questo teatro magnifico capace in questa sola stagione di produzioni di livello assoluto quali The Bassarids, Benvenuto Cellini o Il Trittico.
foto Yasuko Kageyama