La Pratt e la sua Linda
di Stefano Ceccarelli
Il Teatro dell’Opera di Roma porta in scena la rara Linda di Chamounix, capolavoro di Gaetano Donizetti, opera che divenne al suo debutto famosissima in mezzo globo e che valse al bergamasco gli allori dell’Impero Austroungarico e della Francia. Se a Vienna vi fu la Tadolini, qui a Roma (dopo poco meno di due secoli) abbiamo Jessica Pratt, regina indiscussa di questa produzione. Il resto del cast s’avverte tutto una spanna al di sotto: eccezion fatta per il sentito e appassionato Pierotto di Ketevan Kemoklidze. Il direttore Riccardo Frizza esegue il compito non senza qualche intoppo, non sempre penetrando autenticamente nelle maglie della partitura ma – fortunatamente – facendo cantare le voci. La regia di Emilio Sagi – già andata in scena al Gran Teatre del Liceu di Barcellona, in coproduzione – non lima tutti i caratteri dei personaggi e non lavora adeguatamente su alcuni momenti topici (la scena di follia, innanzitutto). Apprezzabile lo sforzo della produzione soprattutto per la rarità del titolo, che infatti mancava dall’Opera di Roma da più di un secolo (l’ultima recita s’ebbe nel 1913).
ROMA, 24 giugno 2016 – Più di un secolo separa questa nuova produzione della Linda di Chamounix dall’ultima andata in scena all’Opera di Roma: era il 1913 e la Storchio eseguiva uno dei più grandi successi della carriera di Gaetano Donizetti. Sebbene, infatti, Linda di Chamounix goda di poca fortuna fra i maggiori teatri d’opera del pianeta, costituì uno dei più saldi successi di Donizetti: a Vienna (maggio del 1842) creò veri e propri episodi di fanatismo con applausi incontrollabili, presenza dei reali austriaci a omaggiare un loro suddito, grandissimo successo personale degli interpreti, soprattutto la Tadolini e Moriani. La fiamma del successo, però, evidentemente andò a spegnersi progressivamente; come per la maggior parte delle opere di Rossini, anche per moltissime di Donizetti (che fu prolifico fiume di scrittura musicale) non entrate in una fortunata silloge s’è dovuto aspettare molto per riaverle su un palcoscenico di livello. Linda è fra quelle più sfortunate. I motivi son presto detti: è un’opera difficile, dove serve un impiego notevole di forze vocali, con una scrittura bella e felice in molti punti, ma certo difficile all’esecuzione; è un’opera semiseria, un mélodrame-vaudeville che pure affronta temi serissimi e attualissimi all’epoca (l’abbandono coatto dei monti della Savoia, la povertà, l’ombra della prostituzione ecc.). Un’opera che è un calderone di stili e movenze operistiche assai differenti, quasi un’antologia dei gusti del melodramma italiano della prima metà dell’ottocento, sperimentale nell’uso di richiami e leitmotiv che tengono insieme tutta l’opera, con un’orchestrazione corposa (cosa che non passò certo inosservata ai critici viennesi: «viva adunque Donizzetti [sic], che dopo le sue 72 opere scrisse un altro capolavoro con novità di concetti che succedonsi l’uno all’altro, e che, per la parte istrumentale, porrà questa bell’opera a livello delle migliori produzioni moderne» si legge in una rivista). Linda è anche infarcita – più o meno consapevolmente – della miglior produzione italiana: vi si sente Rossini, vi si sente Bellini (ammirato rivale del bergamasco), il Bellini delle melodie lunghe lunghe.
Alle considerazioni sulla palese complessità teorica e d’impianto di questa partitura s’aggiungono quelle della filologia musicale: oggi Linda di Chamounix può leggersi nell’edizione critica di Gabriele Dotto (2006), che mette in evidenza chiaramente le diversità fra le mise en scene viennesi e quelle parigine. Il lavoro di Riccardo Frizza, direttore versatile e dalla brillante carriera internazionale, è certo assai arduo, né si può affermare sia riuscito a giungere all’ultima nota della Linda avendo diretto tutto bene, avendo esaltato secondo il suo precipuo stile, ogni movenza della chimerica partitura (si pensi solo ai chiaroscuri comico/tragici del II atto). In taluni punti la direzione pare come spegnersi d’intensità, di brio; in altri pare venir meno di drammaticità. Non sempre, poi, Frizza è in perfetta sintonia con i cantanti, creando nel corso della serata qualche frizione fra palco e buca. Il caso più eclatante è nel concertato del Marchese del I atto e, anche se si avverte leggermente meno, nella preghiera del finale I (una vistosa auto-citazione donizettiana dalla Maria Stuarda). Tuttavia, in generale si può dire che Frizza sia migliorato progressivamente nel corso della serata, sentendo sempre più sua l’opera. Sebbene ami i sublimi sovracuti della Pratt, non è certo pratica da lodare quella di interpolare qua e là acuti dove non ci dovrebbero essere; peraltro, Frizza lo fa a macchia di leopardo, senza reale coerenza. In ogni caso, il singolare colore orchestrale emerge bene da un’ottima prova dell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma: frizzi dei legni, cullanti melodie degli archi, drammatici guizzi dell’orchestra nelle scene di maggior pathos. Quando il dramma di Linda si fa più vivo (nel II atto soprattutto), l’orchestra sa acquisire un differente peso specifico sonoro. Un pregio di Frizza è che lascia, fortunatamente, cantare le voci, come si dovrebbe: sta poi ai cantanti saper affrontare una partitura così complessa.
Regina incontrastata del palcoscenico, vero perno dell’intera produzione, indiscussa attrazione principale, è l’eccellente Jessica Pratt. La sua Linda è storica, raggiungendo ed eguagliando la migliore delle Linde possibili: la divina Mariella Devia, insuperabile e intelligentissima recuperatrice di un patrimonio donizettiano che ha saputo rivitalizzare con gusto sopraffino. Fin dalla cavatina la Pratt ci dimostra – ancor che ce ne fosse bisogno – di che pasta è fatta e di qual mezzo vocale è dotata: la tirolesienne (aggiunta da Donizetti per la première parigina e subito diventata un tormentone) esce perfetta in tutta la sua tripudiante gaiezza, con le acciaccature, le noticine, i portamenti tutti eseguiti con classe, gli acuti smaglianti e svettanti (persino l’interpolato re bemolle sovracuto finale è elettrizzante!), generando un’ovazione incontrollabile nel pubblico. Magnifica e perfettamente coordinata negli assiemi (stupiscono in particolare le messe di voce udibili sopra tutti): la tenera cabaletta del celebre primo duetto con Carlo («A consolarmi affrettisi») è stupenda – il tenore Jordi a difficoltà non è totalmente subissato dalla potenza vocale della Pratt. Del II atto ci stupisce la drammatica intensità del duetto in cui Linda difende la sua verginità dai dolci assalti di Carlo e tutto il finale II con la scena di follia, tanto lodata nell’800, dove la Pratt si trasfigura persino in volto, cantando con commovente accento l’irta scrittura (acuti, balzi e salti) apprestata da Donizetti, melodia che tanto fece delirare (di gioia eh!) il pubblico di mezzo mondo. Conclude l’opera magnificamente, con il delicato duetto e uno smagliante sovracuto nel concertato – ancora interpolato, ma a lei perdonabile.
L’unica interprete che le può star di fianco nella produzione è Ketevan Kemoklidze, georgiana dalla voce caldissima e sensuale, molto ben calata nei panni en travesti di Pierotto: struggente la romanza retroscenica «Cari luoghi ov’io passai» e la seguente ballata «Per sua madre andò una figlia»; commovente il duetto del II con Linda. Peccato che il tenore spagnolo Ismael Jordi (Carlo, Visconte di Sirval) abbia una voce così granulosa, a tratti strappata, poco espressiva; per fortuna compensa in parte con un decoroso fraseggio, ma vicino alla Pratt non emerge per nulla. La romanza famosa «Se tanto in ira agli uomini» è molto sentita e interpretata, venendo applaudita: peccato per gli oggettivi limiti tecnici, come lo sfibramento della voce in smorzando ela poca naturalezza nell’emissione degli acuti. L’Antonio di Roberto de Candia, dalla voce squillante e dal timbro cavernoso, si fa apprezzare più vocalmente che scenicamente: parte con qualche tentennamento nella belliniana romanza «Ambo nati in questa valle»; canta con fervore l’applaudito duetto «Quella pietà sì provvida» ed è molto convincente nell’arioso che apre il finale II «Un buon servo del Visconte», come pure nella successiva scena di maledizione. Caterina di Tonno ha il physique du rôle della mamma Maddalena, ma vocalmente è spenta per tutta la recita. Bruno de Simone canta un frizzante Marchese di Boisfleury, ma non sempre è centrato vocalmente, alternando momenti decisamente sotto tono (come il I e in parte il III atto) a momenti più felici, soprattutto nel duetto del II con Linda. Christian Van Horn (Il Prefetto) ha voce squillante e profonda; scenicamente ben presente, tornisce un carattere autoritario, a tutto tondo: vocalmente il miglior momento è il duetto con Antonio. Buoni gli interventi del coro dell’Opera di Roma: stupisce l’atmosfera soffusa che riesce a creare all’inizio dell’opera, nel corale dell’alba (che strizza un occhio alle aurorali melodie de La donna del lago e del Guillaume Tell).
Lo spettacolo ideato da Emilio Sagi, già andato in scena al Liceu di Barcellona, lascia perlopiù indifferenti: la regia è diafana, le scene non hanno pretese di stupire né di appagare. Le scene, dicevo, ideate da Daniele Bianco, giocano tutte sui cromatismi cangianti del color champagne, del bianco panna, dell’avana, cui rispondono i costumi (Pepa Ojanguren) disegnati sullo stile montanaro svizzero o su un’atemporale belle époque parigina. L’unico atto visivamente interessante è il primo: il gioco in controluce in apertura e la foresta di stilizzati abeti (pali bianchi calati) molto aggradano l’attenzione dello spettatore. L’atto dell’interno parigino, con la sua scala che taglia a mezzo la scena, e soprattutto l’ultimo sono meno interessanti. I personaggi sono poco curati e per lo più lasciati all’arbitrio dei cantanti: la scena della follia di Linda (II) risulta a tratti forzata, così come i suoi isterismi nel III risultano poco incisivi – non si avverte, intendo, molto la differenza fra l’accesso di follia e la sua guarigione. L’unico momento veramente caratterizzato a livello registico m’è parso l’entrata di Pierotto e la sua ballata (con le marionette) nel primo atto.
Uno spettacolo che ha il pregio, in sintesi, di proporre un’opera rara, ottima musicalmente e celeberrima all’epoca di Donizetti: complimenti alla direzione dell’Opera di Roma per questa scelta. Uno spettacolo, però, che ha molti limiti, che si dimenticano volentieri al suono soave della voce della Pratt.
foto Yasuko Kageyama