L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il Trovatore all'Arena di Verona

La pira spenta

 di Andrea R. G. Pedrotti

Serata non delle più felici per la prima del Trovatore all'Arena di Verona: l'allestimento di Franco Zeffirelli è ormai irrimediabilmente datato, né lo risollevano la Leonora di una Hui He decisamente fuori forma o il Manrico di un Marco Berti musicalmente accidentato, né l'impegno di Violeta Urmana e Artur Rucinski. Unico faro e sostegno della serata, un attentissimo Daniel Oren sul podio.

VERONA, 06/08/2016 - Sembra ormai sfumata l'aspettativa destata da alcuni fra i più fulgidi anni della Fondazione lirica Arena di Verona, che, sotto l’eccellente guida artistica di Paolo Gavazzeni, era riuscita a rimuovere la polvere dai marmi areniani e reso la meritata dignità alla poco distante sala del Teatro Filarmonico, grazie a stagioni d’opera e balletto che potevano essere viatico per diventare una delle prime realtà italiane. Purtroppo la parabola ascendente s’è conclusa a dicembre del 2015, con la migliore inaugurazione delle ultime stagioni [leggi la recensione: La forza del destino, 13/12/2015.

Nella fresca serata del 6 agosto 2016, ci siamo trovati nella grigia tristezza di un’Arena semivuota, seppur in occasione di uno fra i titoli più amati del panorama lirico.

La regia di Zeffirelli insiste su tinte particolarmente scure, ad eccezione del finale del secondo atto, quando la centrale delle tre torri sullo sfondo si apre, facendo mostra dell’interno del monastero ove Leonora aveva deciso di rinchiudersi e diventare sposa di Cristo, non potendo unirsi a Manrico. Ai lati abbiamo onnipresenti due grandi statue di guerrieri in atteggiamento di battaglia. Tutto questo empie interamente il palcoscenico, ma in una staticità diffusa assolutamente anacronistica.

L’impatto visivo è quello di un film in costume anni 50\60, di ambientazione più rinascimentale che non basso medioevale, girato in bianco e nero, con successiva colorazione della pellicola. Incuriosisce il costume del Conte di Luna, accostabile, per foggia e tinta, a quello di un immaginario principe azzurro. Il resto è, in pieno stile zeffirelliano, un trionfo del kitsch che può piacere o non piacere. Sinceramente non si riscontra in questa produzione nessuna originalità o colpo di scena particolare, a differenza, per esempio, della bella Turandot dello stesso regista fiorentino; nessuna inventiva perché i movimenti scenici sono ridotti al di sotto del minimo sindacale. Un esempio per tutti è il finale dell’opera, quando il Conte di Luna pronunzia dinoccolato e indifferente la frase “Quale orror”, allontanandosi immediatamente dalla scena con una flemma anglosassone invidiabile. Fortunatamente vengono riaperti tutti i ballabili inseriti per la versione francese e almeno una vaga immagine di dinamicità prende forma sull’ampio palco areniano, ottenendo il primo (purtroppo ne avremo pochi altri) applauso convinto della serata. Le coreografie di El Camborio, riprese da Lucia Real, sono quasi totalmente avulse dal contesto musicale e drammaturgico, anche se non al pari di quelle di Carmen [leggi la recensione]. Le danze vengono sicuramente ben eseguite dal corpo di ballo, tuttavia nasce spontanea una considerazione: uno dei motivi del successo dell’Aida [leggi la recesione] della scorsa stagione fu proporre l’opera con una nuova coreografia, a firma dell’allora direttore del Corpo di Ballo Renato Zanella e sicuramente è stato un gran danno per la Fondazione perdere questa eccellenza autoctona, che poteva garantire (a basso costo perché nell’organico stabile), senza mutare l’impianto scenico, delle novità e migliorie nello sfruttamento degli spazi.

Ciò che lascia perennemente disarmati, è, comunque l’immobilismo generale. Non vogliamo scomodare il magistero d’arte scenica (e musicale) del mirabile organico corale della Bayerische Staatsoper, ma la memoria a breve termine non può che ricondurci a pochi chilometri più a nord di Verona, dove, nella cornice del Salzburger Festspiele, abbiamo assistito a una Manon Lescaut in forma di concerto, ma con recitazione e passionale interpretazione continui al servizio dell’arte [leggi la recensione].

Trattando della parte musicale, autentico salvatore della patria è stato il concertatore Daniel Oren, ottimo condottiero, capace di tenere a galla la nave areniana di cui è ufficiale della bacchetta ininterrottamente dal 1984 a oggi. L’orchestra che, comprensibilmente vista la situazione, aveva mostrato alcuni scollamenti e alcune disomogeneità durante quest’estate, risponde molto bene ai suoi comandi precisamente decisi. Il maestro israeliano è attentissimo a non tradire delle dinamiche efficaci, senza, per questo, mettere in difficoltà una compagnia di canto che segue in ogni respiro. Al termine è giustamente l’artista più applaudito, con l’intero organico orchestrale a tributargli il meritato riconoscimento all’unisono con il pubblico.

Purtroppo la compagnia di canto non è stata all’altezza del cimento. La più grande delusione è giunta da una grande artista come Hui He (Leonora), riguardo la quale dispiace riscontrare una prestazione diffusamente insufficiente. Dopo la cavatina “Tacea la notte placida” alcune contestazioni salutano il soprano cinese, che non palesa mende tecniche, ma un grande affaticamento, fiati gestiti bene, ma cortissimi, un’emissione generalmente affannata, con la maggior parte delle salite all’acuto impostate correttamente ma prive di un risultato accettabile, sfociando sovente in suoni spezzati e note mancate. L’artista comunque c’è e si risolleva leggermente nell’aria “D'amor sull'ali rosee” eseguita con molto gusto e stile, anche se i problemi poc’anzi citati tornano a nella cabaletta “Tu vedrai che amore in terra”. Precisiamo, ancora una volta, che i problemi non erano tecnici, ma di palese affaticamento, in relazione a una critica al soprano giunta dalla platea. Sinceramente troviamo ingeneroso il grido “impara il solfeggio”, rivolto a un’artista che ha dato moltissimo all’Arena e, ci auguriamo, ancora molto potrà offrire in futuro.

Nemmeno la prova di Marco Berti (Manrico) può dirsi positiva. Il tenore è dotato d’un mezzo naturale eccezionale, ma mal gestito. La voce si rompe già in “Deserto sulla terra” e, di seguito le cose migliorano ben poco. Il fraseggio è perennemente affannato e l’intonazione pesantemente deficitaria nel corso di tutta l’opera. Certamente non memorabile il suo “Ah! sì, ben mio, coll'essere” e gli acuti della successiva cabaletta “Di quella pira l'orrendo foco” sono presi ponendo la mano all’orecchio sinistro per meglio verificare l’intonazione, quasi fosse una lezione di solfeggio e non una prima in una delle Fondazioni Liriche più importanti d’Italia. Anche il do sul conclusivo “All'armi” non è certo memorabile, spegnendosi sulla “a”, senza mai giungere alla “i” conclusiva.

Decisamente meglio Artur Rucinski (il Conte di Luna) che cerca di dare spessore ed espressione a un personaggio scenicamente e registicamente inesistente. Bene il controllo dei fiati, le scelte espressive e di varietà dei colori. L’emissione risulta un po’ grezza, ma gli consente ugualmente di affrontare discretamente l’aria “Il balen del suo sorriso”.

Violeta Urmana non trova più in Azucena uno dei ruoli d’elezione, ma esegue tutta la parte con gran stile e forza interpretativa. Molto brava per scelta di accenti e di fraseggio sia nel racconto del secondo atto, sia nel finale. Il mezzosoprano lituano è, probabilmente, l'artista che più s’impegna in recitazione e interpretazione e questa è un’ulteriore nota di merito.

Male il Ferrando di Sergey Artamonov, pesantemente in affanno nell’introduzione (specialmente nella stretta della stessa), ma aiutato al meglio dall’attenzione di Oren a non porlo in ulteriori ambasce.

Completavano il cast Elena Borin (Ines), Antonello Ceron (Ruiz), Victor Garcia Sierra (Un vecchio zingaro) Cristiano Olivieri (Un messo). La prima ballerina era Teresa Strisciulli

Bene il coro della Fondazione, diretto da Vito Lombardi, che non è certamente più ai livelli della gestione di Armando Tasso, ma mantiene bel colore e omogeneità, dimostrandosi, ancora oggi, una delle migliori compagini italiane.

La regia era di Franco Zeffirelli, i costumi di Raimonda Gaetani, il maestro d’armi (per la breve battaglia a conclusione del secondo atto) era Musumeci Greco, mentre il coordinatore del corpo di ballo era Gaetano Petrosino.


 

 

 
 
 

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