Mozart in tre considerazioni
di Francesco Lora
Al Festival della Valle d’Itria v’è spazio anche per un titolo celebre: Così fan tutte. Vi fa scalpore Luisi, concertatore inarrivabile; intorno a lui, una regìa di poco spessore e una compagnia di esordienti.
MARTINA FRANCA, 1o agosto 2016 – Direttore italiano per nascita e per buona parte della sua formazione: è vero. Ma Fabio Luisi ha collezionato tanta e tale carriera all’estero, con fior d’incarichi, da essere rimasto noto sulle nostre piazze più per fama, o per qualche ricordo isolato, che per esperienza conscia e continuativa del suo magistero artistico. La nomina a direttore musicale del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, a partire dal 2018, non mancherà di stabilizzare nel Belpaese uno dei suoi più fervidi talenti. Nel frattempo, il Festival della Valle d’Itria si è già aggiudicato da un paio d’anni la lussuosa ospitalità di Luisi (2014: La donna serpente di Casella)[leggi la recensione] nonché la sua direzione stabile (2015: Medea in Corinto di Mayr) [leggi la recensione della recita e del DVD] Ed è proprio negli spettacoli operistici all’aperto, nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, che il musicofilo anche il più smaliziato e vagabondo sta imparando a meravigliarsi del direttore genovese, vuoi per il dominio tecnico e l’erudizione stilistica – rarissimo goderle unite – vuoi per l’entusiastica disponibilità a raccogliere le occasioni di fatica. È il caso della Francesca da Rimini di Mercadante[leggi], opera di assetto grandioso e mai rappresentata sino a oggi, nell’allestimento della quale il XLII Festival è culminato: Luisi vi ha profuso le cure sinfoniche e narrative che solo di rado altre bacchette concedono agli inflazionati Rossini, Donizetti e Bellini. Ed è il caso dell’altro lavoro da lui diretto quest’anno nella rassegna itriana: Così fan tutte di Mozart, per due recite il 21 luglio e il 1o agosto.
La presenza di un titolo celebre in un cartellone votato alla riabilitazione del peregrino sorprenderà tanto meno alla luce di tre considerazioni. La prima: Martina Franca è non solo il capoluogo di un festival oggi al culmine della propria vitalità, ma anche la sede di una pluridecennale attività didattica intorno al canto; i giovani che frequentano tale accademia sono essi stessi la linfa che perpetua l’energia della rassegna estiva e che assicura manodopera alle scene del mondo: Luisi sceglie di coinvolgerli senza mistificazioni, ossia non relegandoli dietro musiche dimenticate, bensì esponendoli nel capolavoro mozartiano. La seconda considerazione: per incredibile che possa sembrare, Così fan tutte non era ancora nel repertorio di Luisi, che in un unico gesto ha deciso di riservare a Martina Franca questo debutto rilevante e di condividerlo con giovani a loro volta esordienti. La terza considerazione: Così fan tutte secondo Luisi è un prodigio di sapienza direttoriale, avvalorato dal particolare contesto martinese in fatto di spazi (esterni) e di risorse (limitate).
È una lettura vistosamente frutto di studio capillare, personale e inesaustibile, nel quale nessun vezzo, prassi, emulazione o tradizione trova sede senza un’attenta critica. L’agogica è per intero rimodellata sulle parole, sulle situazioni e sulle sottigliezze della retorica musicale, in un inedito gioco di indugi e fremiti talvolta sconcertante, più spesso rivelatorio, il quale comunque obbliga lo spettatore ad ascoltare, a valutare e a scegliere. Le linee del canto si impreziosiscono di variazioni e cadenze, restituendo a Mozart i sottintesi della sua scrittura vocale. L’Orchestra internazionale d’Italia, compagine provvisoria con modeste referenze, si trasfigura e fa credere all’uditorio di essere non tra trulli e masserie, ma a Vienna o Berlino o Dresda: il gesto di Luisi la fa splendere nell’echeggio degli ottoni, la fa brillare nel ciangottare dei legni e la fa riverberare nella setosità degli archi, con una gamma di volumi, una sagacia di fraseggi e una freschezza di timbri che eccedono ogni più rosea aspettativa. Cammeo festivaliero, infine, nel ripristino della grande aria di Guglielmo «Rivolgete a lui lo sguardo» – risposta di pari grado a «Come scoglio immoto resta», che la precede, e brano tanto superbo quanto raramente eseguito – in luogo della più scorrevole e meno pretenziosa «Non siate ritrosi».
Poche parole intorno allo spettacolo firmato da Juliette Deschamps: non una semplice mise en espace, come dichiarato, ma un allestimento completo benché ripulito al massimo negli elementi di scena. Spettacolo, tuttavia, di peso specifico radente la volatilità quando non l’insussistenza: le note di regìa nel programma di sala macinano parole senza restituire alcun concetto pregnante o idea stringente. La compagnia di canto è evidentemente richiesta di mimare la “giovanilità” secondo il secolo XXI, ma è nel contempo abbandonata alle didascalie originali (Da Ponte non teme, d’altra parte, l’insulto degli anni). Il sistema metaforico del librettista, compreso quello di uso comune, è travisato dalla drammaturga fino al paradosso di restituire alla lettera il semplice modo di dire: «Le povere buffone | stanno nel giardinetto | a lagnarsi coll’aria e colle mosche | d’aver perso gli amanti», racconta per esempio Despina a Don Alfonso; l’ingegnosa regista fa comparire poco dopo Fiordiligi e Dorabella armate di racchette accoppa-insetti: e nessuno ride.
Verdissima la compagnia di canto, con le scommesse vinte e gli scabrosi azzardi che da ciò conseguono. Vince il soprano Shaked Bar, Fiordiligi non copiosa nel volume ma squisita nel gusto, solida nella tecnica, tanto coscienziosa e guardinga nel porgere quanto introverso è il personaggio a lei affidato. Vince il mezzosoprano Nozomi Kato, Dorabella naturalmente portata a insidiare, per calda esuberanza di mezzi vocali e decisa franchezza di gioco attoriale, la sorella datale in palcoscenico. Vince il baritono Daniele Antonageli, Don Alfonso che nasconde i crini grigi nell’esperienza acquisita, e che con canto sciolto e smaltato non rinuncia alla coetaneità con gli amici militari. Non se la cavano altrettanto bene il baritono Laurence Meikle, come Guglielmo, e il soprano Nao Yokomae, come Despina: il primo abbozza disinvoltura scenica, ma rimane sempre ostaggio di una serata infelice, con gravi difficoltà e forzature in fiato, legato ed estensione; la seconda riprende tal quale il petulante personaggio della tradizione obsoleta, non accorgendosi che la lettura di Luisi non gli concede cittadinanza. Vince infine – ma con riserva – il tenore Bryan Lopez Gonzalez; timbro accattivante e modi fragranti tengono viva l’attenzione sul suo Ferrando, lasciando tuttavia temere che la linea si spezzi nei luoghi più impervi dell’alta tessitura, e costringendo Luisi all’unico e grave taglio alla partitura: l’aria «Ah, lo veggio: quell’anima bella» lascia vuoto il suo spazio a un recitativo accompagnato che – assurdità teatrale e musicale – non conduce da nessuna parte.