L’Ape musicale

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das rheingold, chicago

Un nuovo Ring per Chicago

di Valentina Anzani

Alla Lyric Opera di Chicago è in scena il primo capitolo di un progetto quadriennale firmato David Pountney per l’intera tetralogia di Wagner. Voci di classe.

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Chicago, 9 ottobre 2016 – Alla Civic Opera di Chicago sono in scena le repliche di Das Rheingold (L’oro del Reno), il primo capitolo della narrazione wagneriana lunga quattro opere, Der Ring des Nibelungen (L’anello del Nibelungo). La nuovissima produzione (in collaborazione con il Teatro Real di Madrid) prevede l’allestimento di tutte le tappe del ciclo durante le prossime stagioni, una all’anno fino al 2020, con la regia di David Pountney.

Protagonisti della tetralogia sono antichi Dei del Nord, dotati di poteri sovrumani ma allo stesso tempo pervasi da sentimenti, egoismi e voglie umanissime. Il re degli dei Wotan (un Eric Owens in ottima forma) pretende di costruire la propria dimora celeste e magnifica, ma non intende ripagare secondo i patti coloro che l’hanno fabbricata; nel cercare una soluzione alternativa si impossessa di un tesoro che proviene dalle acque del Reno e che era stato a sua volta rubato dal nibelungo Alberich. Il tesoro appartiene al fiume e a questo dovrebbe essere reso, ma il sovrano preferisce raggiungere i propri fini, e, piuttosto che ristabilire l’ordine, rinnega il proprio onore. L’opera termina con gli dei che prendono possesso del Valhalla, eppure il momento di trionfo è incrinato dalla consapevolezza che nel prosieguo della tetralogia gli eventi prenderanno una piega tragica.

La regia di questa sfarzosa produzione si propone come una descrizione letterale dei fatti più che un’interpretazione; ricopre, nelle intenzioni di Pountney, un ruolo simile a quello del narratore di un racconto orale, ovvero una figura che è l’artefice della narrazione e di cui l’ascoltatore percepisce la presenza. Per farlo Pountney rende visibili le macchine di palcoscenico in azione: dunque il Vahlalla è il teatro stesso, e carrucole, cavi e tecnici sono ben in vista, cosicché il pubblico assiste sia alla scena, sia al modo in cui questa viene costruita.

Il risultato è ricco, pomposo, molto minuzioso nella moltitudine di dettagli, simboli, sfavillii e insiste sulla magnificenza: vuole suscitare meraviglia. E ci riesce, almeno fintanto che la ricchezza di dettagli non si trasforma in sovraccarico, la minuziosità in dispersione e molte delle piccole finezze che danno pregio alla lettura registica non si perdono, difficili da isolare (come il gesto dolcissimo di saluto a Freia a Fasolt, sommerso dal marasma di frenesia intorno).

Sono numerose anche le trovate di grande effetto visivo: il fluttuare opalescente delle sensuali creature acquatiche (Diana Newman, Annie Rosen, Lindsay Ammann), lo squarciare le nubi di Donner (Zachary Nelson) per rivelare il Valhalla sono certamente il risultato di grande maestria scenotecnica; tuttavia perché una lettura sia esauriente non deve soltanto essere pedissequa, soprattutto se questo va a scapito della musica (o del buon gusto): la lotta dei giganti Fasolt e Fafner (Wilhelm Schwinghammer e Tobias Kehrer) è già magnificamente orchestrata dal compositore, e inscenarne l’avvenimento in palcoscenico con un rumorosissimo rimbalzare di enormi stivali e avambracci di plastica sembra superfluo, così come i fantocci di drago e di rana che si gonfiano altrettanto rumorosamente sulla schiena di Alberich nelle sue trasformazioni. Per quanto dichiarate nelle note di regia come intenzionali, numerose scelte assumono tratti macchinosi, rarefatti e non sempre convincenti, e a farne le spese è la resa musicale: per quanto Sir Andrew Davis sia una nobile bacchetta, non sempre le sue fatiche giungono all’orecchio dell’ascoltatore.

Se nessuno di questi aspetti grossolani inficia il giudizio del pubblico – che dalla platea approva senza riserve, con reazioni di volta in volta sonoramente meravigliate, entusiaste, divertite – il merito è soprattutto delle voci, dal cui fronte giungono le maggiori soddisfazioni. Una menzione va a Štefan Margita, il quale ha confermato che il ruolo di Loge gli calza a pennello: epurato da ogni tratto epico in favore di quelli comici, percorre la narrazione da vero mattatore. Altro interprete che ha tratto giovamento dalla componente buffa è Rodell Rosel nel ruolo di Mime: dalla sua ha anche una voce dal timbro leggermente aspro, che in questo caso asseconda per caratterizzare il piccolo nibelungo nel poco spazio che Wagner gli concede. Laura Wilde tratteggia con colori frizzanti e briosi la segregata innocenza di Freia: il suo mezzo vocale è perfetto per la dea che conferisce la vita. Leggermente rigido l’Alberich di Samuel Youn. La voce di Tanja Ariane Baumgartner veste di adamantine sfaccettature il personaggio di Fricka. Okka von der Damerau era una ieratica Erda, Jesse Donner, giovane leva del Ryan Opera Center, era Froh.

foto Todd Rosenberg



 

 

 
 
 

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