L’alter ego del mostro
di Francesco Lora
Claus Guth reca un nuovo ardito collegamento psicanalitico nella sua regìa di Salome per la Deutsche Oper di Berlino. Manuela Uhl è una protagonista completa e convinta nel ribaltone drammaturgico. Favolosa efficacia teatrale nella direzione di Jeffrey Tate, assecondato da un’orchestra che non conosce l’esitazione tecnica.
BERLINO, 22 novembre 2016 – Claus Guth, si sa, è il regista degli alter ego, degli sdoppiamenti, dei sosia in scena, con proposte di ardito collegamento psicanalitico tra personaggi lontani. Così è ancora nella Salome di Richard Strauss da lui ideata per la Deutsche Oper di Berlino, in collaborazione con Muriel Gerstner per scene e costumi, con Olaf Freese per il disegno luci e con Sommer Ulrickson per i movimenti coreografici: un allestimento seminuovo, varato nell’inverno scorso e ripreso per due recite il 18 e il 22 novembre. Nel ribaltone drammaturgico, Salome adolescente è fin dall’infanzia la vittima, non protetta dalla madre Herodias, delle torbide attenzioni di Herodes: se questi abusa del suo corpo, il duplicato Jochanaan le fa violenza nella mente, instillandole sensi di vergogna e colpa. Il dramma di Oscar Wilde, tradotto e adattato da Hedwig Lachmann, diviene così un percorso di liberazione della donna dall’aguzzino, fino al momento nel quale è Salome stessa ad avventarsi su Herodes-Jochanaan per strappargli la testa e annientare il mostro. All’intero spettacolo dà senso e pregnanza la coreografia della danza di Salome: una pantomima dove lo stuolo di copie del personaggio, in ordine di età crescente, ripercorre l’angosciata crescita verso la maturità, preparando la resa dei conti col lascivo artefice della danza. Funziona, poiché ancora una settimana dopo il calare del sipario la mente di chi scrive è intenta a ricordare, collegare, interpretare, credere di aver compreso, desiderare di rivedere.
Va da sé che lo spettacolo, fuori da ogni tradizione e sparso di gesti e significati, imponga un lungo e complesso lavoro con gli attori. Lavoro che si conferma tanto meglio riuscito in quanto la compagnia di canto è ora stata in buona parte rinnovata, implicando una partenza da zero. Nuova è innanzitutto la Salome di Manuela Uhl, attrice che si lascia coinvolgere con entusiasmo, e soprano capace di saldare in uno stesso profilo artistico la levità emissiva e il chiarore timbrico, evocativi della giovinezza e dell’innocenza reale o presunta, con una forza d’acciaio nelle impennate più volitive, violente, disperate, arroganti. Nessuno ha invece osato toccare Jeanne-Michèle Charbonnet, ferma al suo posto come interprete ideale di Herodias: già forte di un patrimonio vocale importante, e ora passata a ruolo di caratterista, ella sa la via del grande impatto nel piccolo gesto e accetta la caricatura di sé nella sola partecipazione alla danza di Salome.
Herodes e Jochanaan paiono confondersi non solo sulla scena ma anche nel canto. Il giudizio avvantaggia il tenore Burkhard Ulrich, debitamente untuoso e grottesco nella parte del tetrarca, ma non il baritono John Lundgren, ingolato e poco autorevole in quella del profeta. Suggestiva la schiusa contraltile dell’opera grazie alle tornite frasi di Annika Schlicht come Paggio, e altrettanto efficace la patetica e incisiva protesta d’amore nel Narraboth di Attilio Glaser. Ottimo il comprimariato e favolosa la direzione di Jeffrey Tate. Chi lo abbia ascoltato condurre le sole orchestre italiane ne avrà sempre una troppo modesta idea; venga ad ascoltarlo alla testa della compagine della Deutsche Oper: ogni momento ha in sé l’intenzione, la narrazione, l’atmosfera, la progressione, il virtuosismo di chi sappia e possa far incedere lungo un progetto drammatico non la prima tra le orchestre tedesche, ma nondimeno una sfarzosa collezione strumentale che di Strauss possiede ogni tratto idiomatico e che della partitura possiede ogni eccitante contraccambio tecnico. La routine di un grande teatro.