Il come (e l'ancora) del Faust
di Francesco Lora
All’Opera di Firenze, l’allestimento-capolavoro con regìa di David McVicar incontra la direzione formidabile di Juraj Valčuha e una compagnia di canto capitanata da una trascinante Carmela Remigio: eccezionale alla prima recita effettiva (dopo uno sciopero), lo spettacolo ha ormai superato sé stesso all’ultima.
FIRENZE, 22 gennaio e 3 febbraio 2017 – Tra gli allestimenti del Faust di Gounod, quello con regìa di David McVicar, scene di Charles Edwards, costumi di Brigitte Reiffenstuel, coreografia di Michael Keegan-Dolan e luci di Paule Constable non è nuovo: varato al Covent Garden di Londra, gira per Europa e Australia dal 2004. Occorre rammentarlo a sé stessi, poiché sulle prime non lo si crederebbe: lungi dall’assuefare o dal soffrire dettagli dispersi, oggi come allora è lo spettacolo che si vorrebbe meditare ogni dì, rivedere ogni sera, scoprire ogni giorno. La trasposizione spazio-temporale da un’indefinita Germania rinascimentale alla Parigi della guerra franco-prussiana non deve stupire: portare l’azione nel libretto all’epoca del linguaggio della partitura è, specialmente nel caso del Faust, una regola praticata da tempo con ovvietà di legge di natura. Stupisce il come. Bando all’oleografia, tutto parla del meticoloso lavoro con gli attori per mettere a punto gesti scioltissimi e psicologie complesse, del capolavoro scenografico nel costruire, evocare e popolare spazi, dello studio del costume capace di sbrigliare Méphistophélès in panni di dandy o courtisane, del rispetto fatto al balletto spesso tagliato e qui trasceso in simboli superiori all’immaginazione degli autori stessi.
Un virtuosismo senza pari sta nella coordinazione della macchina coreografica, sia essa quella vorticosa della kermesse nell’atto II, mutata in un indemoniato e rosseggiante “Cabaret L’Enfer”, ovvero quella delle masse nell’atto IV, con la festa intorno ai soldati tornati alle famiglie e l’attonito ultimo allontanarsi, lungo la piazza ormai vuota, di una moglie e madre che si scopre vedova e sola con i suoi due orfani di guerra. V’è un solo peccato originale che si perpetua e ipoteca il formidabile spettacolo: l’amputazione delle prime scene nell’atto IV, come una tradizione scellerata suggerisce in barba alla logica del testo; spariscono in tal modo l’immagine topica di Marguerite all’arcolaio, la chiara esplicitazione della sua maternità, dell’abbandono subìto e dello sconforto, l’amorevolezza anch’essa dichiarata del fedele Siébel, la continuità degli eventi senza far appello a troppi sottintesi, nonché ancora e soprattutto la toccante scena musicale della protagonista e le incantevoli strofe dell’adolescente innamorato.
Nelle nuove cinque recite all’Opera di Firenze (20 gennaio - 3 febbraio), per conto del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e con sala traboccante di pubblico, l’alto discorso musicale ha minacciato di togliere il primato a McVicar. Concertatore, Juraj Valčuha srotola l’Orchestra del MMF e incalza il relativo Coro con un fiorire di timbri, una fantasia di fraseggi, una souplesse di porgere, una sorpresa di tempi e ritmi, una duttilità di accompagnamento e una trasparenza di sovrapposizioni da lasciare allibiti: in un solo colpo si assiste al suo trionfo personale e alla rivelazione di ulteriori, insospettate qualità nelle maestranze fiorentine.
La compagnia di canto ha un primo punto forte nella generale e convinta adesione al progetto del regista e del direttore. Il 22 gennaio non sempre lo ha nell’esibizione di risorse specifiche, naturali e tecniche, teatrali e musicali, da parte del singolo interprete: ma si tratta di una delicata seconda recita seguìta a una dimidiata “prima-non-prima” per sciopero dei tecnici, nella quale si sovrappongono a tradimento la tensione del debutto e il crollo dell’adrenalina. È una fortuna, invece, che i prodigi di McVicar, di Valčuha e della primadonna impongano al critico musicale di tornare a gioire, il 3 febbraio, dell’ultima recita: ancora Faust, questo Faust. Già disinvolto e attraente nel gioco attoriale, così, Paul Gay raddoppia il sornione fascino attoriale e arricchisce il proprio canto – prima parso baritonale, flebile, non sempre ben emesso – con spessore da vero basso unito a flessibilità e spigliatezza: è messo finalmente a fuoco il suo Méphistophélès, non monumentalizzato intorno a un patrimonio vocale d’eccezione, ma sfuggente, agile e beffardo come un Don Giovanni. In modo analogo, il tenore Wookyung Kim riconferma e moltiplica il canto ricco di armonici, ben legato tra registri e facile nell’ascesa all’acuto; ma in più dispiega ora un timbro non meno che ammaliante – in più tratti sembra di ascoltare il giovane Giuseppe Filianoti – e un impegno per nulla comune di recitazione (infervorata) e fraseggio (studiato a puntino): il suo Faust ha già oggi pochi rivali. [aggiornamento 3 febbraio]
Solido, schietto e un poco rude è Serban Vasile come Valentin; valida, calorosa ma lasciata in ombra – soprattutto a causa del taglio nell’atto IV – Laura Verrecchia come Siébel; professionale Karl Huml nel breve intervenire di Wagner; eccellente Gabriella Sborgi: complici direttore e regista, nei panni di Marthe costruisce un personaggio così vivido e spassoso da rammaricare per la sua effettiva sparizione dopo l’atto III. Trionfatrice è, infine, Carmela Remigio: secondo alcuni non dovrebbe perdere tempo a riprendere una parte come quella di Marguerite, trascurandone altre che, con più fruttuosa strategia, l’attenderebbero nel repertorio italiano; invece è andata per la propria strada, caparbia, e ha restituito con un patrimonio vocale immacolato – anzi incrementato: il registro centro-grave è sempre più corposo, accanto all’emissione di alta scuola, alla vocalizzazione disinibita, alla risonanza importante e allo svettante registro acuto – un personaggio in continua evoluzione, semplice ma trepidante, indipendente dall’aura di diva, capace di regolare a ogni passo, in entusiastica immedesimazione, i tempi emotivi di chi osserva e ascolta.