L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La traviata al Teatro Massimo di Palermo

Déjà vu d’effetto

 di Giuseppe Guggino

La nuova produzione palermitana de La traviata da esportare in Giappone entusiasma un pubblico evidentemente pago della tradizione. Nei vari cast in avvicendamento di pregio le prove di Maria Agresta e Simone Piazzola.

Palermo, 26 marzo 2017 - V’è una singolare tendenza a Palermo, storicamente consolidata, alla riproduzione, all’imitazione, al falso storico. Falso tanto cristallizzato da far completamente perdere memoria che, ad esempio, uno dei due stipiti di Porta Felice o il cortile dell’Abatellis nulla, ma veramente nulla, abbiano d’autentico. La tendenza ha recentemente dovuto sconfiggere l’ombra del dubbio, allorquando due Palazzi adiacenti del mandamento di Castellammare sono finiti il primo nelle sapienti mani di Gae Aulenti (con gli esiti che tutti unanimemente le hanno riconosciuto) e il secondo, con sprezzo di Cesare Brandi, in balia della storica inclinazione palermitana al falso, all’impostura, alla riproduzione fedele (con deroga per una piscina, necessaria concessione alla cafoneria dei giorni nostri).

Gli allestimenti in scena in questi giorni a Palermo, in vista della prossima tournée in Giappone, ripristinano definitivamente il dubbio in favore della rassicurante “riproduzione fedele”. Sicché, sorvolando sugli interni di Sant’Andrea della Valle e di Palazzo Farnese dell’allestimento di Tosca recentemente acquistato dal Maggio Musicale Fiorentino, la nuovissima Traviata dei medesimi artefici ha potuto sufficientemente compiacere il numerosissimo pubblico di tutte le recite con ricostruzioni minuziose del giardino d’inverno a vetrate di Villa Malfitano o un interno di Villino Florio. In fondo "Di Provenza il mare il suol"  altro non è che un trascurabile intralcio di libretto e dove poteva mai nascere Alfredo se non in quella Capitale dell’universo creato che è ovviamente Palermo? Il punto è che in questa nuovissima Traviata liberty, nata vecchia, datata, il dispiegamento di mezzi d’effetto si arresta al secondo quadro, giacché per la festa a casa di Flora (che evidentemente avrà avuto problemi con le bollette della Società Meridionale di Elettricità, tanto poco illuminava le sue serate) è adorna solamente di un solo tendone rosso che poi muta in verde, nella camera da letto di Violetta: e dov’è finito il liberty?

Ugualmente dicasi della celebrazione della capacità produttiva del Teatro nel realizzare le volontà di Francesco Zito, firma di scene (assieme ad Antonella Conte) e costumi, per i quali la Fondazione ha bandito procedura negoziata di esternalizzazione.

L’unico elemento di interesse di questa terza Traviata in cinque anni (anzi, la quarta, se si conteggia pure un’edizione estiva) risiede nel cast. A dire il vero non in tutti i cast, giacché per insondabili artifici organizzativi (usuali per i teatri a programmazione “di repertorio”, decisamente meno per teatri a programmazione all’italiana, quale è certamente Palermo) nella produzione si sono avvicendati, incastrati e variamente assortiti due direttori, tre soprani, tre baritoni e due tenori. L’unica recita che inanellava i migliori sulla carta era questa quinta recita presenziata.

Va detto che René Barbera è un tenore notevolissimo, capace già di un riuscitissimo Ramiro nella stagione trascorsa [leggi la recensione], ma cosa l’abbia spinto a calarsi un contesto estraneo per stile e caratura vocale è un mistero. Stessa sostanziale estraneità si profila nei pur ragguardevoli mezzi di Maria Agresta alle prese in una data secca con l’ultima Violetta della sua decennale carriera (ma gli addii ai ruoli lasciamoli alla Devia per Lucia di Lammermoor, o alla Kabaivanska per Tosca, per carità!); in realtà, almeno al primo atto, il ruolo le calza in maniera a dir poco non ideale, stante il notevole affaticamento nella gestione delle agilità e in un registro acuto risolto con troppi espedienti, non ultimo il ricorso ad un’emissione flautata che comunque le consente uno sbiadito mi bemolle, ancorché intonato. Belle intenzioni interpretative ben risolte vengono fuori a partire dal duetto con Germont padre e subito dopo in "Amami Alfredo", oltre che in un finale molto toccante che le vale poi il successo meritato a fine recita. Quanto a Simone Piazzola, già Germont nell’indimenticabile edizione del 2014 con Mariella Devia protagonista, siamo di fronte al più interessante e solido baritono oggi in circolazione, quasi sempre vigilato nel gusto, vario negli accenti interpretativi, premiato anche dalla richiesta di bis al cantabile del second’atto, peraltro assecondata con condivisibile rinnovamento delle ovazioni.

Il livello del comprimariato era dignitoso per il comparto maschile (con Giorgio Trucco come Gastone, il Barone di Paolo Orecchia, il Marchese di Italo Proferisce e il Dottore di Romano Dal Zovo); lo era meno per quello femminile per l’Annina di Adriana Iozzia e, ancor più, per Piera Bivona impegnata come Flora.

Alla guida di un’orchestra e del coro più o meno assestati sul livello di un autonomo professionismo era l’arcano gesto di Giacomo Sagripanti, una delle tante celebrate promesse del podio nel repertorio italiano. Promesse da marinaio, beninteso.

Sulla regia vera e propria sarà bene limitarsi a registrare con rassegnazione la presenza di tutte le trovate più stucchevoli nelle Traviate documentate nella storia, glissando sull’ancheggiare a colpi di ventaglio delle zingarelle o sul crocefisso da tavolo nell’ultimo quadro, forse scappato dal secondo atto di Tosca rappresentata in concomitanza (troppe produzioni affidate agli stessi nomi generano inevitabilmente confusioni!). Luci (e bui) erano di Bruno Ciulli.

Dell’annunciata stimolazione olfattiva “Violetta Valéry” (il cui insufflaggio attraverso il sistema di condizionamento pare fosse risultato molto rumoroso alla Prima) non s’è avuta percezione alcuna: solamente sentore di un modo di fare teatro morto da tempo.


 

 

 
 
 

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