Italienische Reise
di Andrea R. G. Pedrotti
La lettura riflessiva e intelligente di Omer Meir Wellber riporta l'opera di Massenet alla poetica di Goethe, che compie così una sorta di nuovo, ideale, Viaggio in Italia. A dar voce alla tempesta interiore del romanzo epistolare, Francesco Meli, Werther più introverso che esuberante, e Veronica Simeoni, più amica che innamorata.
PALERMO, 30 maggio 2017 - Die Leiden des jungen Werthers è senza dubbio uno dei più fulgidi esempi del romanticismo letterario tedesco, opera totemica dello Sturm und Drang e fra i maggiori capolavori di uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, Johann Wolfgang Goethe. Jules Massenet ne fece una delle più celebri e rappresentate opere dell’Ottocento francese. Tuttavia, per varie concause, questo melodramma non ebbe la sua prima messa in scena in terra di Francia, ma alla Wiener Hoper (odierna Wiener Staatsoper) il 16 febbraio 1892. Un soggetto tedesco, tradotto in opera lirica da francesi, ma rappresentato nella capitale di uno dei più importanti imperi, e torniamo al principio, di lingua tedesca. Ormai siamo abituati ad ascoltare Werther come un’opera francese, ma i temi in esso contenuti sono profondamente legati a un’area mitteleuropea e non latina, col tormento, il dolore, la passione, l’estasi, interamente celati nella latebra dell’animo del protagonista.
Al teatro Massimo di Palermo siamo tornati ad ascoltare una partitura che ha fatto viaggiare, ancora una volta, Goethe in Italia. Merito principale di questo va all’interpretazione trasmessa dalla bacchetta di Omer Meir Wellber. Nessuno slancio emotivo palese, ma l’impeto d’una climax ascendente d’angoscia. Dalla platea si ha la piena impressione che il golfo mistico stia sublimando, non traducendo, l’interiorità del protagonista, con variazioni di intensità che non esplodono mai appieno e di colore che rimandano sistematicamente al cupo tormento del poeta romantico. È raro che la policromia del suono si schiarisca appieno, facendo avvertire l’imminente, dirompente tragedia intima del protagonista. Pare di essere assisi, tranquilli, nelle campagne della Baviera o della Sassonia, in una serata fresca, ma, si sa, il clima della mitteleuropa è cangiante con frequenza: da lontano si scorgono delle nubi, se ne avverte il brontolio, qualche lampo silente, la tempesta si avvicina, ma non arriva mai, il fulmine non scarica la sua potenza.
Goethe è tornato a viaggiare in Italia perché i caratteri dei personaggi non sono quelli che il gusto francese ha assegnato ai protagonisti di Massenet. Charlotte non ama Werther, è un’amica: si preoccupa della condizione del poeta, ma non lascia alcuno spazio alla brama amorosa di quest’ultimo. È lui a vivere ogni emozione nel suo dramma interiore. È questo l’autentico romanticismo tedesco e l’orchestra lo restituisce trasmettendo ansia e angoscia di continuo allo spettatore. La linea della concertazione di Wellber ci guida, parimenti, alle lettere del romanzo epistolare di Goethe, alla tragedia del suo intimo. Nel secondo atto i Leiden (tormenti, dolori, patimenti), si fanno Leidenschaft, nel passaggio dall’aria delle lettere che lei sfoglia preoccupata, dopo aver salutato affettuosamente Albert (che in Goethe e in questa edizione corrisponde sentimentalmente), ma la passione (sempre nell’intimo di Werther) scoppia al suo ingresso in scena, con la linea musicale che si fa ancora una volta, e ancor di più, greve e cupa. In questo III atto scopriamo un dettaglio commovente, sempre grazie alla direzione di Omer Meir Wellber: Charlotte domanda all’amico di proseguire nella traduzione dei versi di Ossian; dopo aver preso fra le mani il manoscritto, Werther si appresta a pronunciare la frase che è quasi drammatico soliloquio “Toute mon âme est là!”. Viene seguita la melodia, ma, al di sotto di essa, viene accentuato il fermento degli archi, ne aumenta l’intensità e il colore si fa sempre più scuro. Da qui un pubblico (fino a quel momento attento, ma piuttosto pacato) esplode in due applausi a scena aperta frenati solamente da una musica mai, giustamente, interrotta.
Ancora Sturm und Drang nel quarto atto: il temporale e il temporale incombente sull’animo romantico di Werther scoppia, finalmente, ma non in un fulmine, bensì nel colpo di pistola che il protagonista esplode contro se stesso. La lettura di Wellber ci aveva riportato a un gusto tedesco non precisamente wagneriano (siamo in un dramma fatto di disordine umano interiore privo di sublime trascendente), ma Wagner arriva ora nel senso di sollievo di un finale che è un autentico Liebestod: Werther e Charlotte come Tristan e Isolde, un amore non corrisposto sublimato nel sogno poetico in Goethe e Massenet, da un filtro in Wagner. La morte d’amore giunge, tuttavia, nello stesso modo, secondo il più autentico romanticismo tedesco musicale e letterario. Così Goethe ha viaggiato nuovamente in Italia.
La regia di Giorgia Guerra è didascalica, ma funzionale: i colori sono seppiati e sembra si voglia riprodurre un’immagine simile a celebri pellicole degli anni ‘40 (palese il riferimento a Casablanca). Bella l’idea di far scendere il sipario sipario tagliafuoco e chiudere due quinte laterali nere, dando l’impressione di un obbiettivo che va chiudendosi nei momenti più intimi. È presente qualche piccola pecca di inesperienza (comunque risolvibile nel riassemblare lo spettacolo) con alcune proiezioni effettuate sulle pareti laterali, impedendone la visione dai palchi meno centrali.
Protagonista era il tenore genovese Francesco Meli, il quale ben si adatta alla lettura del direttore d’orchestra con un personaggio più introverso e meno esuberante. Purtroppo si sono palesate alcune mende vocali, delle mezzevoci eseguite con un’emissione molto sporca e notevoli difficoltà nel registro acuto, specialmente nell’aria “Oui! Ce qu’elle m’ordonne…!” del II atto.
Buona la Charlotte di Veronica Simeoni, mezzosoprano non dotato di voce possente, ma che interpreta il ruolo con musicalità. Il suo è personaggio molto borghese e compassato, affettuosa senza eccessi con Albert, preoccupata per Werther, ma, certamente, non coinvolta da un sentimento amoroso. Come in Goethe. Christian Senn ha affrontato con precisione e professionalità il personaggio di Albert, vittorioso rivale in amore di Werther.
Corretta la Sophie di Serena Gamberoni.
I comprimari erano guidati dal sempre ottimo Francesco Pittari (Schmidt), fraseggiatore capace di lasciar sempre il segno e dal bravo Nicolò Ceriani (Le Bailli).
Completavano il cast Claudio Levantino (Johann), Carmen Ghegghi (Kätchen) e Gianfranco Giordano (Brühlmann).
Buona la prova del coro femminile del Teatro Massimo, diretto da Piero Monti, a sostegno delle voci bianche ben preparate musicalmente da Salvatore Punturo, ma con una qualità vocale dei ragazzi non eccellente.
Le scene tradizionali e in linea con la regia di Giorgia Guerra erano di Monica Bernardi, i costumi ben disegnati da Lorena Marin e le luci (molto belle e conformi alla linea musicale) di Bruno Ciulli.
L’allestimento era una nuova produzione del Teatro Massimo in coproduzione con Auditorio de Tenerife.
Teatro non esaurito, ma pubblico abbastanza numeroso.
foto Rosellina Garbo