Domingo e Mariotti, insidia ad Aida
di Francesco Lora
In forma di concerto al Festival di Salisburgo, I due Foscari vantano un Domingo viepiù agiato nella tessitura di baritono, un Calleja ben differenziato e con timbro malioso, nonché la direzione-lezione di Mariotti, capace d’illustrare l’alta dignità dell’opera giovanile verdiana e il profilo autentico del melodramma italiano.
SALISBURGO, 14 agosto 2017 – Non sarà baritono per bronzo timbrico e altera cavata: il suo registro d’azione rimane tipicamente tenorile, benché sbilanciato di una terza verso il grave, e da tenore rimane l’istinto di ben posizionare le singole note prima di pensare al legato della frase intera. Ma nell’ostinata sfacciataggine del suo cambio di corda, nonché nella corsa a un nuovo e lungo filone di ruoli, Plácido Domingo la sta viepiù facendo a scettici e detrattori: più ora che otto anni fa il suo canto domina tessiture baritonali, con un più agiato dosaggio del fiato, un minor affanno, una risonanza generosa e una conseguita omogeneità di risorse lungo la gamma. Se n’è avuta conferma nei Due Foscari di Verdi eseguiti l’11 e il 14 agosto, nel Grosses Festspielhaus, al Festival di Salisburgo.
Anche in forma di concerto e con l’argine del leggio, nel Francesco Foscari di Domingo giganteggia la presenza scenica, subito tradotta in un porgere che privilegia l’amorevolezza del padre sull’autorevolezza del doge; e persino il timbro pulviscoloso e senza smalto – ma, quel che più conta, sempre inconfondibile – partecipa idealmente all’edificazione di un personaggio dalla carismatica comunicativa. Accanto al vecchio leone, azzeccato è l’ingaggio di Joseph Calleja come Jacopo Foscari: ben nota emissione ingolata, ben noto vibrato chevrottant, ben noto timbro di favolosa malìa che fa perdonare le altre mende e, pur nell’eresia tecnica, induce ad ammettere salute e tenuta dei mezzi vocali. Accomunati qui i due Foscari dalla natura tenorile, non si potrebbe tuttavia immaginare una più immediata e benvenuta differenziazione tra la giovanile, romantica, baldanzosa, incredula teoria di mezzi e affetti recata da Calleja, e quella vegliarda, pensosa, composta, rassegnata recata da Domingo.
A condividere il loro gioco manca una Lucrezia Contarini di pari estrazione e ispirazione. Annullato l’impegno di Maria Agresta, convalescente, ecco la cinese Guanqun Yu, che già aveva sostenuto la parte, a Valencia nel 2013, proprio al fianco di Domingo: soprano dalla prestazione corretta, capace di tutte o quasi le note scritte, è però scevro di forza d’accento nel canto di sbalzo e lontano dal commuovere nell’elegia del cantabile. Decorosa come di rado è a sua volta la schiera delle altre parti, dal lussuoso rigoglio di Roberto Tagliavini nel ruolo antagonistico di Jacopo Loredano, al pulito comprimariato di Bror Magnus Tødenes come Barbarigo, di Marvic Monreal come Pisana, di Jamez McCorkle come Fante e di Alessandro Abis come Servo del Doge.
Ma v’è un altro trionfatore, al suo debutto salisburghese: Michele Mariotti, calato dalla provvidenza a predicare anche in agnostica terra mitteleuropea l’alta dignità del primo Verdi. Persino il nuovo allestimento del Trovatore all’Opera di Stato di Vienna – beninteso con altra bacchetta – ha visto rinnovate le sciocche sforbiciate di tradizione e trasandatezze estranee al testo: questo è il trattamento corrente, in area germanofona, del patrimonio operistico italiano. Con Mariotti e con una partitura di minor grido, a dare il buon esempio, non solo è bandito ogni taglio, ma ogni ripresa di cabaletta diviene anche occasione per presentare approfondimenti agogico-dinamici; l’accompagnamento del canto rifugge la millantata meccanicità e rivela pur esso il minuzioso labor limae dell’autore nella strumentazione; i cantanti sono sorretti in ogni loro necessità, ma nel contempo spronati a soppesare la parola e partecipare a passi e tinte; la locale Mozarteumorchester e il Philharmonia Chor di Vienna mostrano infine di aver assimilato in pochi giorni, con una singolare prestanza tecnica e un’entusiastica varietà retorica, il corredo idiomatico del melodramma italiano ottocentesco. Al termine della seconda esecuzione, ovazione plenaria in piedi e applauso così lungo da insidiare l’egemonia della concomitante Aida [leggi la recensione].
foto © Salzburger Festspiele / Marco Borrelli