Sogno di una notte di fine estate
di Giuseppe Guggino
La ripresa di stagione del Massimo di Palermo ripropone la riuscita produzione del Midsummer night’s dream britteniano andata in scena l’anno scorso a Valencia per la regia di Paul Curran. Solisti di buon livello con omogeneità di esiti, Coro di voci bianche e Orchestra sorprendentemente a pieno agio in un repertorio lontano dalle abituali frequentazioni, non paiono sufficienti ad arrestare l’esodo di pubblico all’intervallo.
Palermo, 19 settembre 2017 - L’estate inoltrata porta in quel di Palermo la dimensione del Sogno shakespeariano che, nella veste musicale di Benjamin Britten, ora lunare ora abbagliante, si rivela in tutta la sua seducente magia nel surrealismo dei tre mondi che si sfiorano, si toccano, per capriccio, per gioco. Gioco che si ritrova nella puntuta vocalità di Jennifer O’Loughin quale Tytania e nel non impari consorte Lawrence Zazzo, sempre controllato, vivido e collaudatissimo nella prima quanto languido, vagamente monteverdiano nel secondo. E rodate sono le capriole da autentico folletto dell’agilissimo Chris Agius Darmanin che sarebbe semplicemente perfetto, se solo controllasse meglio quella manciata di frasi intonate assegnate al suo ruolo, essenzialmente parlato.
Equilibratissimo è il quartetto di amorosi composto da Leah Partridge, Gabriella Sborgi, Szymon Komasa e Mark Milhofer, così come ben poco di più potrebbe chiedersi alla schiera di rustici capitanata dallo scatenatissimo Bottom di Zachary Altman e con le ottime voci (specie per la corda grave) di Jonathan Lemalu (Quince), Sion Goronwy (Snug), Michael Borth (Starveling), Keith Jameson (Flute) e William Ferguson (Snout). Meno a fuoco vocalmente ma scenicamente plausibilissima è la coppia regale di Leah-Marian Jones e Michael Sumuel.
Nell’aura surreale che si addice al Sogno, il Paul Curran scenografo osa il ridisegno della classicità architettonica greca in chiave curvilinea e la funzionalità che ne discende, coniugata alla dimensione irreale dello spettacolo, confermata dalla cifra estetica degli estrosi costumi di Gabriella Ingram, ne guadagna immediatamente l’indulgenza. Il Paul Curran, invece, regista rimescola le carte in un avvio di teatro nel teatro quasi a suggerire l’ambientazione in una sorta di parco archeologico (trovata ormai francamente abusata, fra il Giulio Cesare di Pelly e Il viaggio a Reims di Michieletto), strada poi fortunatamente non sviluppata, allorquando lo spettacolo si abbandona al suo naturale dipanarsi fino ad un terzo atto un poco caricato ma decisamente irresistibile. Nella ripresa qualche rifinitura necessaria alle luci nuoce un po’ alla dimensione poetica: è quel poco di realtà che serve a far vivere i sogni.
Che il Coro delle voci bianche di Salvatore Punturo sarebbe stato da Sogno era cosa piuttosto prevedibile sulla carta, meno che l’Orchestra riuscisse ad entrare così bene in sintonia con il linguaggio britteniano nelle due settimane scarse di prove: molto trasparenti gli archi, più che ottimi gli ottoni (con una menzione speciale per la prima tromba) e il gesto chiaro di Daniel Cohen (che pure fa qualche pasticcio al terzo atto) ha gioco più che facile.
Ci si desta quindi a fine dello spettacolo più riuscito di tutta la stagione in corso e ci si dirige speditamente all’uscita, tra il pubblico decimato dall’imprudenza di accorpare i primi due atti. Si agguanta di passaggio il flyer della prossima stagione, annunciata sotto le parole chiave “curiosità” e “innovazione”, con l’occhio a posarsi sul nuovo Rigoletto con Leo Nucci e il sogno – di una notte appena – si infrange. O scivola nell’allucinazione.
foto Rosellina Garbo