Un sogno sì intralciato
di Andrea R. G. Pedrotti
La regia ridondante, tautologica e caricaturale di Arturo Cirillo appesantisce non poco la nuova produzione dell'opera rossiniana per il Opera Lombardia. Non brilla nemmeno la parte musicale, in cui si distingue comunque l'eleganza stilistica di Cecilia Molinari nei panni della protagonista.
BRESCIA 1 ottobre 2017 - Il Teatro Grande di Brescia ha inaugurato la propria stagione d’opera e balletto con una deludente nuova produzione di uno dei più celebri titoli rossiniani: La Cenerentola.
La sconclusionata regia di Arturo Cirillo sostanzialmente punta sull’esplicitare a mo’ di caricatura alcune parti del libretto, con numerose azioni distraenti: per esempio durante il duetto “Un soave non so che”, mentre Angelina descrive a Don Ramiro la sua condizione familiare e di vita, i personaggi (il padre e le sorellastre) appaiono dalle quinte ogni qual volta lei li nomini. Un altro esempio è la cavatina di Dandini “Come un’ape nei giorni d’aprile”, con il baritono impegnato a saltellare, imitando il batter d’ali d’un insetto, e le sorellastre che si presentano a lui indossando vistosi copricapi di foggia floreale. È un susseguirsi inarrestabile di questi siparietti e tanto vale citarne un altro per il secondo atto, quando Dandini pronunzia la frase: “Alfine sul bracciale / ecco il pallon tornò; / e il giocator maestro / in aria rimbalzò”, entrando con una grande palla gonfiabile a spicchi con la quale inizia a giocare.
Tutte queste trovate hanno, a loro volta, un’ulteriore controscena: quattro mimi dall’aspetto efebico che giocano fin dalla sinfonia con delle scarpette (richiamo alla versione di Perrault, mai più ripreso nella regia) e sembra, inizialmente, vogliano essere il doppio delle sorellastre; infatti, nella prima scena, mentre Clorinda e Tisbe si ammirano in una cornice senza specchio, sono essi a fingere d’essere la loro immagine riflessa. L’idea viene meno subito dopo e i mimi divengono prima dei cupidi intenti a lanciar frecce per far sbocciare l’amore fra Angelina e il principe di Salerno; successivamente si impegnano nel gioco della mosca cieca, durante la cabaletta dell’aria di Don Ramiro del secondo atto, nel momento in cui il coro si appresta a cantare “Noi voleremo, domanderemo, ricercheremo, ritroveremo”. Nel duetto che segue, fingono di essere un treno a vapore per la partenza di Don Magnifico, in altri momenti divengono i cavalli della carrozza. In sostanza i quattro mimi risultano onnipresenti sulla scena.
I pochi movimenti vagamente sensati appaiono come citazioni dalle produzioni di Emma Dante, Luca Ronconi, Roberto De Simone e Jean Pierre Ponnelle, ma decisamente meno efficaci, in quanto avulsi dalle idee drammaturgiche di quattro celebri registi completamente diversi fra loro.
La scena è ridotta a tre pareti dipinte con motivi particolarmente colorati e sgargianti: l’abitazione di Don Magnifico ha l’aspetto di una sala d’un palazzo nobiliare, mentre tutti gli altri ambienti sono stilizzati. Sovente vengono calate delle tele aggiuntive a sottolineare, anch’esse, in maniera caricaturale le parole del libretto: per esempio, durante la cavatina di Don Magnifico “Miei rampolli femminini”, scende un sipario suppletivo e il barone di Montefiascone, mentre racconta il suo sogno, indossa abiti da somaro e delle vistose ali.
Sulla sommità si apre spesso un piccolo soppalco che ospita il coro per quasi l’intera durata dell’opera. Nel finale la scena appare nuda e, dalla rotazione di un camino industriale, appare Angelina assisa su un seggio, invero assai spartano, che dovrebbe figurare il trono: solo il suo, però, poiché il regio scranno ha posto per un'unica persona.
Di scarsa qualità i costumi, stilisticamente disomogenei nella foggia singola e nello stile a seconda del personaggio. Numerosissimi i cambi d'abito del coro.
Ciò che lascia perplessi, visto il risultato, è il gran numero di curatori della parte visiva: Arturo Cirillo (regia), Dario Gessati (scene), Vanessa Sannino (costumi) e Daniele Naldi (luci), ai quali vanno ad aggiungersi Antonio Ligas (assistente alla regia), Emanuele Sinisi (assistente alle scene) e Sylvie Barras (assistente alle luci).
Nel cast, fra tutti, si fa preferire l’Angelina/Cenerentola di Cecilia Molinari, la quale palesa gran preparazione musicale e ottima capacità nella gestione di uno strumento dall’estensione estremamente limitata sia nei gravi, sia negli acuti, nonché di volume decisamente esile. Sarebbe interessante ascoltare la Molinari in un repertorio cameristico o barocco, visto il gusto dimostrato nelle cadenze del rondò finale. Il melodramma ottocentesco non appare, purtroppo, pienamente alla portata del mezzo vocale che la natura le ha messo a disposizione.
Accanto a lei non demerita il Don Ramiro di Ruzil Gatin, poco a suo agio nel registro grave e centrale, ma dotato di grandissima facilità nell’acuto e, soprattutto, nell’estremo acuto: forse unico l’ascolto di una variazione al fa sovracuto nella frase “Perfida gente insana, io vi farò tremar”.
Del tutto insufficiente la prestazione della coppia di buffi, a partire da Clemente Antonio Daliotti, perennemente calante, non riesce a far mai girare adeguatamente l’acuto, risulta attore incolore, forse anche a causa delle numerosissime, troppe, amnesie del testo di Jacopo Ferretti. Discorso simile per il Don Magnifico di Vincenzo Taormina, che, dotato di miglior intonazione ma perennemente in debito di fiato, pasticcia platealmente il sillabato dell’aria del secondo atto “Sia qualunque delle figlie”. Negativa anche la prova dell’Alidoro di Alessandro Spina, in perenne difficoltà vocale e inespressivo nel fraseggio.
Migliori del cast le sorellastre Elena Serra (Tisbe) e l’indisposta Eleonora Bellocci (Clorinda), attrici irresistibili e frizzanti, si difendono con onore nel canto.
La concertazione di Yi-Chen Lin risulta incolore e senza personalità, poco vivace anche a causa di tempi sovente fin troppo slentati. Medesimo discorso vale per la dinamica, con una linea fin troppo prudente e soffusa, tanto da non aumentare mai l’intensità nemmeno nei notori crescendo rossiniani. Buca e palcoscenico risultano slegati; la gestione di tutti i numeri d’assieme, dei duetti e dei terzetti, non è mai omogenea. Unico concertato che pare funzionare è “Questo è un nodo avviluppato”, che, infatti, riscuote un buon successo dalla sala. Completamente fuori stile il finale del duetto fra Dandini e Don Magnifico: “Un segreto d’importanza”, quando la direttrice concede ai due interpreti una pausa nell’ultima battuta, per consentire loro un perentorio acuto, eseguito con un unisono decisamente perfettibile.
Dal punto di vista squisitamente orchestrale, le sezioni dell’orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano risultano sufficientemente omogenee.
Il coro, diretto da Mario Fiocchi Malaspina, porta a conclusione una delle sue peggiori prove: anarchico nel canto e con molti elementi dall’intonazione assai precaria.
Il numeroso pubblico applaude con iniziale freddezza, capace di sciogliersi solo per i numeri musicali dei due protagonisti e per qualche risata ispirata dall’ironia del bellissimo libretto di Jacopo Ferretti, proiettato sulla sommità della scena. Al termine applausi per tutti.
foto Umberto Favretto