Un cerchio wagneriano
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia nazionale di Santa Cecilia appresta un concerto con tre prime esecuzioni (una, l’ultima, addirittura italiana) e due grandi interpreti, il direttore Alan Gilbert e la violoncellista Sol Gabetta: The Black Gondola, orchestrazione di John Adams del fortunato lavoro pianistico di Franz Liszt, La lugubre gondola; il Concerto per violoncello e orchestra n. 1 di Bohuslav Martinů; e un arrangiamento/suite sinfonica de Der Ring des Nibelungen di Richard Wagner, composto dal Gilbert, che ha avuto la sua première qualche anno fa a New York (2013). Ottime esecuzioni decretano il successo della serata, decisamente orientata al wagnerismo.
ROMA, 18 febbraio 2017 – Un concerto dal chiarissimo fil rouge wagneriano quello apprestato da Alan Gilbert per il pubblico dell’Auditorium Parco della Musica, e che ha anche una sua colonna portante nell’arte della ripresa musicale di celebri opere. È proprio il caso del primo brano della serata, la versione orchestrale de La lugubre gondola II di Franz Liszt, riorchestrata dal compositore minimalista John Adams (The Black Gondola). Liszt voleva evocare il piangere, quasi, delle veneziane acque al passaggio della gondola portante il feretro di Richard Wagner; Adams riesce a creare un’orchestrazione che è quasi un’opera autonoma, a sé stante, dove la Lugubre gondola è «mimetizzata su un’orchestra che allarga il bianco e nero dei gesti lividi del pianoforte funebre, immerso nella Laguna, presago della morte di Wagner, e lo trasporta su una tavolozza di colori centellinati» (C. Moreni, dal programma di sala). Gilbert ben dirige e l’orchestra ha un suono semplicemente magnifico: l’impasto timbrico di Adams, a campiture ampie e squadrate, viene esaltato dalla gestualità pacata ma intensa di Gilbert, sempre alla ricerca dell’agogica più consona, soprattutto notando le sfumature della tavolozza d’intensità di cui Adams fa uso. Applausi.
Sol Gabetta, violoncellista di fama mondiale, bellissima e amata dal pubblico romano, fa il suo ingresso in un morbido abito verde acqua, pronta a eseguire una composizione assai poco conosciuta, ma che sta portando in giro per il mondo: il Concerto per violoncello e orchestra n. 1 H 196 (versione del 1955) di Bohuslav Martinů. Boemo, influenzato e dal neoclassicismo e dalla ricchissima tradizione della musica popolare del suo paese natale (come ogni boemo che si rispetti), Martinů ha dato vita a un concerto che taglia orizzontalmente il virtuosismo del violoncello e che occhieggia alla tradizione del grande concerto per orchestra, con sensate aperture a sperimentalismi tipici del suo tempo. La Gabetta, sublime lettrice di partiture, riesce a conferire un’interpretazione compartecipe fin dall’Allegro moderato (I), un lungo monologo del violoncello, modulante in svariate frasi tutte dalla coloritura intensa, col sostegno orchestrale, quasi un controcanto; delle doti più squisitamente liriche della Gabetta – forse il suo fiore all’occhiello – godiamo nell’Andante moderato (II), una lunga, calda melopea malinconica, cui l’interprete conferisce – nei passaggi melodici – un tiepido vibrato: nella virtuosistica cadenza la difficoltà è mantenere quel senso di vago e melanconicamente indefinito di tutto il pezzo. Screziato, eccitante, vivace, il finale (Allegro) è reso ancor più spumeggiante dai saldi passaggi dell’interprete, che fa qui della velocità d’esecuzione un momento di morbido divertimento. Gli applausi sono inarrestabili e ricompensano giustamente l’ottima esecuzione. L’orchestra dell’Accademia è straordinaria nel cesellare ogni passo di una partitura all’apparenza agevole, ma tutt’altro che semplice: ottima la direzione di Gilbert. Come bis la Gabetta si esibisce, con i violoncellisti dell’orchestra, ne El cant dels ocells, tradizionale canto natalizio, nel più celebre arrangiamento di Pablo Casals.
La seconda parte del concerto vede l’esecuzione della suite di Gilbert su alcune musiche de Der Ring des Nibelungen di Richard Wagner: Gilbert ha voluto sintetizzare, con scelte soggettive (giustamente), la poderosa tetralogia, connettendo fra loro una serie di momenti puramente orchestrali che (a suo dire) ben potevano ambire a sintetizzare la monumentale tetralogia wagneriana. L’operazione è – direi – più che riuscita: anche se non splende in tutti i particolari, la sintesi sonora gilbertiana restituisce quel senso di epica potenza che è la firma musicale più autentica della tetralogia. S’inizia, proprio, con la celeberrima cavalcata delle Valchirie(Die Walküre, 3. 1), in una versione, però, troppo leziosa, attenta alla bellezza di alcuni passaggi, depurata dello spirito autenticamente impetuoso che dovrebbe prevalere su tutto: s’ascolti, al confronto, la versione di Furtwängler. Più autenticamente epico l’addio di Wotan (Die Walküre, 3. 3). Viva l’agogica dell’epica ascesa di Siegfried sulla rupe (Siegfried, 3. 2-3); bello il trapasso fra le cangianti cromature dell’aurora e l’attraversamento del Reno da parte dell’eroe (Götterdämmerung, prologo); struggente la marcia funebre di Siegfried (Götterdämmerung, 3. 2), potente, epico il sacrificio di Brünnhilde, che si getta nel rogo dell’amato Siegfried mentre il Walhalla cade in fiamme (finale III dell’opera). Il suono dell’orchestra è pieno e coeso: l’esecuzione è qualitativamente d’alto livello. Gilbert prende gli applausi per quest’ennesimo tentativo di riassumere il Ring, opera dal fascino incommensurabile e chiude il cerchio wagneriano, a Ringkomposition.