I due volti di un do
di Alberto Ponti
L’accoppiata britannica Blackshaw/Pinnock incanta con capolavori di Mozart e Schubert
TORINO, 7 aprile 2017 - Sembrano due amici che si siano incontrati dopo una giornata di lavoro per andare a bersi una birra in un pub londinese. Christian Blackshaw e Trevor Pinnock entrano in scena così, con aria tranquilla e perfino timida, prima di interpretare in un auditorium RAI quasi al completo il concerto per pianoforte e orchestra n. 24 in do minore K 491 (1786), una delle più immortali pagine mozartiane.
Nato nel 1949, Blackshaw è un pianista non più giovane, oggetto di un vero e proprio culto nella nativa Gran Bretagna, con un repertorio meditato e relativamente ristretto tutto compreso tra l'opera del genio salisburghese, di cui ha interpretato e inciso l'integrale delle sonate, e il romanticismo di Schumann.
Il concerto in do minore è spesso accostato a quello in re minore K 466 ma, al di là del modo della tonalità, è una pagina del tutto diversa per carattere: la drammatica teatralità qui cede il posto ad accenti più colloquiali e talvolta dolenti, nel dialogo fra il solista e un'orchestra che, caso unico nei concerti di Mozart, comprende anche i clarinetti a fianco degli oboi e degli altri fiati, creando un effetto di chiaroscuro timbrico quasi metafisico, amplificato da Blackshaw con un tocco di grande classe e raffinatezza, più luminoso che umbratile, seppur con una vena di soffusa malinconia. La tecnica di altissimo livello del pianista si estrinseca in un controllo sovrano del suono, ricco di mille sfumature ottenute con un limitato uso del pedale, ma capace di improvvisi bagliori ai limiti del virtuosismo, soprattutto nel tema con variazioni finale, senza sacrificare l'innata liricità intimamente connessa alla sua natura, che emerge prepotente nel sublime Larghetto del concerto così come nell'Andante cantabile dalla sonata K 330 e nell'Impromptu op. 90 n. 3 di Franz Schubert (1797-1828), concessi come bis al termine di una di quelle ovazioni che l'esigente pubblico torinese tributa solo agli interpreti di razza.
Perfetta sotto ogni punto di vista, la direzione di Pinnock carica di vibrante mistero la frase iniziale di archi e fagotti per espandersi con crescente empito nei rari momenti di concitazione, sempre lasciando ad ogni voce il giusto respiro, in un gioco di rimandi con la tastiera che esalta la tersa scrittura di tutto il lavoro.
Nella monumentale e alla fine applauditissima Sinfonia n. 8 (ma anche 7, 9 o 10 secondo le varie precedenti numerazioni del catalogo) in do maggiore D 944 La Grande (1825/28), vertice della produzione orchestrale di Schubert, il gesto del maestro di Canterbury, storico fondatore de The English Concert, si fa addirittura fiammeggiante, sia pur nel rispetto scrupoloso delle indicazioni della partitura ben presente sul leggio.
Dal tema dei due corni nell’Andante introduttivo, ripreso con novità inaudita per l’epoca al termine del primo movimento, alla indimenticabile melodia dell’oboe tosto avvolta dagli archi che apre il successivo Andante con moto, ai ripetuti staccati nello Scherzo e nel colossale Allegro vivace finale (ben 1154 battute in 2/4, la ‘divina lunghezza’ di cui parlava Schumann), il suono si mantiene pieno e pulito, sotto la bacchetta di un direttore abituato ai perfetti meccanismi del contrappunto del Settecento, rivelando, senza rinnegare l’espressività già pienamente romantica di un’opera assai innovativa, i saldi legami con la grande tradizione.
E la sfolgorante sequenza di triadi di do maggiore ribattute al termine della sinfonia, così diversa dagli enigmatici finali delle quasi coeve grandi sonate pianistiche che si pongono all’estremità della parabola creativa ed esistenziale di uno dei massimi compositori di ogni epoca, chiude quel cerchio apertosi all’inizio della serata con l’esplorazione delle profondità ultraterrene del divino do minore di Wolfgang Amadeus.