Se Romeo t'uccise un figlio
di Roberta Pedrotti
Messa in scena intelligente e salda concertazione per I Capuleti e i Montecchi con un cast di giovani al Comunale di Bologna. Spicca la voce del tenore Francesco Castoro.
BOLOGNA, 6 maggio 2018 - Torna anche quest'anno al Comunale il progetto OperaNext realizzato in collaborazione con l'Auditorio de Tenerife: un laboratorio di studio musicale e teatrale per giovani interpreti che ne presentano i frutti nelle Canarie e all'ombra delle Due Torri. Ritorno gradito, e per la bontà del progetto, e per la scelta di un titolo ampiamente sottovalutato ma di mirabile sintesi ed elaborazione formale e retorica come I Capuleti e i Montecchi di Bellini, e per la conferma di Silvia Paoli come regista dopo le promettenti Nozze di Figaro di due anni fa [leggi la recensione].
La giovane fiorentina dà prova del suo talento e restituisce appieno il clima di una faida fra clan familiari in cui "l'onore" non ha nulla di nobile e cavalleresco. Lo stesso Romeo condivide questi valori, questo retaggio: può guadagnarsi la nostra empatia per quell'amore che in parte lo redime, ma è spogliato da ogni idealizzazione, non troppo diverso dai suoi nemici, né tantomeno da Tebaldo, al cui rituale di affiliazione ai Capuleti assistiamo durante la cavatina.
In questo mondo non c'è spazio per le donne, che possono apparire solo durante le cerimonie religiose, a occuparsi della vestizione della nubenda e del compianto sulla defunta. E potrebbe essere un abito da prima comunione quello da sposa di Giulietta: è una donna-bambina educata a chinar la testa al volere del patriarca, alla logica della "famiglia", anche quando ciò significhi esser merce di scambio per sancire alleanze. Con i sentimenti, le dimostrazioni d'affetto, gli uomini d'onore non possono inquinare la loro virilità: Cappellio d'irrigidisce maldestro ai tentativi d'abbraccio della figlia e quando si commuove al ricordo dell'altro figlioletto ucciso bambino s'affretta ad asciugare lacrime che non può, non deve permettersi.
Proprio nel concentrarsi su un particolare spesso trascurato, come quel fratello di Giulietta ucciso da Romeo, Silvia Paoli dimostra d'aver letto e studiato con cura il libretto di Felice Romani. Dalle parole di Capellio, che definisce sostanzialmente il giovane Montecchi latitante sin da fanciullo, si può dedurre che il delitto sia avvenuto quando era ancora un ragazzino, fra bambini o poco più già armati e coinvolti nella spirale spietata delle faide. Allora non solo lo spettro del piccolo Capuleti, ma anche di altre giovanissime vittime, appaiono a più riprese come ricordi, ossessioni, simboli. Nel finale del primo atto, quando infuria lo scontro, le fazioni cessano di combattersi fra loro per puntare tutti le armi sugli innocenti; nell'epilogo gli spiriti appaiono a Romeo morente e accolgono fra loro la coppia mentre risuonano terribili, come un interrogativo e un'accusa universali, gli ultimi versi: "Uccisi, da chi? - Da te, spietato".
Proprio, però, nella realizzazione di questa idea, si nota il limite attuale di Silvia Paoli, che appare ancora troppo legata alla scuola di Damiano Michieletto, di cui è stata assistente. Nella presenza di questi spiriti, benché alcuni momenti siano veramente toccanti, si avverte ora un pizzico di maniera, ora perfino un effetto déjà vu (le apparizioni dalla finestra ricordano moltissimo il magnifico Sigismondo pesarese). Lo spettacolo dimostra comunque un'intelligenza che lascia auspicare una crescita di questa regista con uno stile sempre più personale.
Se, poi, per qualcuno fosse importante precisarlo, confermiamo che no, la vicenda non è ambientata a Verona ai tempi di Ezzelino da Romano ma nella Calabria delle 'ndrine negli anni '70. Da Piramo e Tisbe ai giorni nostri, gli amori di Romeo e Giulietta non hanno, purtroppo, bisogno di un'univoca collocazione storica e geografica per apparire credibili e veri. E chi storcesse il naso perché nel libretto si cita il castello di Tebaldo non avrà mai visto certi ecomostri kitsch appartenenti a figure dalla fama non proprio immacolata nel nostro Mezzogiorno.
In un cast che risponde, generalmente, molto bene alle sollecitazioni registiche e recita con credibile partecipazione, spicca decisamente la voce del tenore Francesco Castoro. Una voce che un tempo si sarebbe definita "simpatica", oltre che schiettamente teatrale, facile in acuto, sempre ben proiettata, omogenea, capace di legare sul passaggio di registro, forte di un'evidente salda base tecnica. Deve un po' affinarsi musicalmente, scaltrire il cantabile fra dinamiche e colori, ma le premesse ci sono tutte per una luminosa carriera e frattanto si merita il successo più caloroso della serata. Lara Lagni, Giulietta, risulta promettente ma ancora un po' più acerba, benché l'impostazione appaia assai buona e le permetta di proiettare la voce in sala anche volgendo le spalle al pubblico: il timbro ha un ché di infantile che tradisce i suoi ventun'anni e sicuramente si adatta bene alla definizione del personaggio in questo spettacolo, ma potrà anche acquisire maggiore morbidezza e rotondità con il tempo, sì da cogliere appieno, al di là della giovanile baldanza in acuto (anch'esso passibile di qualche levigatura), tutto l'incanto dell'involo melanconico della sortita. Un più accurato lavoro di revisione tecnica si consiglia invece ad Aurora Faggioli, un Romeo che sembra costantemente alla ricerca della corretta posizione del suono, anche a costo di sacrificare l'intelligibilità del testo, con un'emissione sovente indietro o nasale e acidula in alto.
Sia pure per questioni di censura, Felice Romani non fece di Lorenzo un frate, ma un familiare dei Capuleti, e come tale questo spettacolo (finalmente) ce lo presenta, nell'interpretazione di Nicolò Donini. Capellio è Alberto Camòn, che preferiamo immaginare colpito da una qualche brutta forma di laringite - il clima bizzoso favorisce infreddature - seppur non annunciata. Bene il coro del Comunale, in crescita nel corso della serata la prova dell'orchestra guidata da Federico Santi, sicuro nella gestione dell'assieme e del rapporto fra buca e palco come nella resa delle dinamiche, nella veemenza del dramma e nell'assecondare i momenti più lirici ed elegiaci. Tutte qualità encomiabili considerata la poca o nulla esperienza teatrale del maestro, che finora ha diretto opere quasi esclusivamente in forma concertante. Si potrebbe auspicare una maggiore mobilità di fraseggio, un senso del canto anche strumentale più sfumato, ma non possiamo non apprezzare la solida tenuta in uno spettacolo come questo, di giovani e per i giovani.
Al termine buon successo per tutti (compresi lo scenografo Andrea Belli, la costumista Giulia Giannino e Daniele Naldi che riprendeva le belle luci di Alessandro Carletti), con un calore particolare per Castoro e Lagni.
foto Rocco Casaluci