Il mistero dell’Olandese
di Alberto Ponti
Una coppia di protagonisti di alto livello e la direzione energica di James Conlon sono i punti di forza di Der fliegende Holländer di Richard Wagner eseguito in forma di concerto
TORIN, 24 maggio 2018 - È opinione diffusa che con Der fliegende Holländer (Dresda, 2 gennaio 1843) Wagner, dopo Rienzi, grand opéra ancora nell’orbita di Meyerbeer, dia la prima prova del suo linguaggio personale, anticipando nelle tematiche e nello stile non solo gli altri due titoli della triade romantica (Tannhäuser e Lohengrin) ma anche i capolavori supremi della maturità, da Tristan a Parsifal. In effetti, in una lettura lineare e a posteriori della parabola creativa dell’autore, ogni tassello sembrerebbe combaciare in tale direzione. Resta il fatto che lo stesso Wagner, pur riconoscendone il ruolo di punto di svolta rappresentato nella sua produzione, non considerava il titolo affatto inferiore o semplicemente propedeutico ai frutti successivi del suo genio, tanto da ritornare a esso a più riprese, con modifiche alla strumentazione, e ad affermare, nelle settimane veneziane precedenti la morte, che l’Olandese sarebbe stata addirittura la sua opera migliore. Una battuta, si dirà, ma, tenuto conto della psicologia del maestro poco avvezza a dichiarazioni gratuite, non così paradossale.
Nella concertazione di James Conlon con i complessi della Rai, giovedì 24 e sabato 26 maggio all’auditorium ‘Toscanini’, ogni aspetto della partitura è stato evidenziato nella giusta luce, senza eccessi ed estremismi ma con una decisa costante tensione di fondo, a cominciare dalla celebre ouverture, destinata a risuonare inaudita agli ascoltatori dell’epoca, con il Leitmotiv dell’Olandese gridato in medias res con somma violenza dagli ottoni. Certo, nell'esecuzione torinese manca a tratti la sensazione di quel che di demoniaco e notturno, mutuato senza intermediari da Carl Maria von Weber, quello scoperto mistero strisciante nei rapinosi sussurri degli archi, nei felpati piano ribattuti nell’impasto di oboi, clarinetti e fagotti, ma il mistero più grande non è forse ciò che risplende alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, al modo della prova decisiva in un racconto di Sherlock Holmes? Il vero interrogativo, da lasciar sollevati e sgomenti allo stesso tempo, non è piuttosto la trasfigurazione ultima dei protagonisti nel luminoso re maggiore, pacificato e disteso, scandito dagli arpeggi dell’arpa? In questo senso la bacchetta del maestro statunitense ci rende un Wagner di notevole pienezza filosofica e intellettuale, realizzando attraverso una lettura musicale di intensa coerenza espressiva il perfetto connubio con le intenzioni del libretto. Come scrive lo stesso Conlon nell’introduzione al programma di sala, gli attori principali del poema non sono che outsider, ciascuno a disagio nel contesto in cui si trova ad agire: il navigante è condannato suo malgrado a vagare per l’eternità mentre Senta, in disparte dall’operosa vita della famiglia, rimane incantata e terrorizzata di fronte al ritratto in procinto di farsi vivente. Se si aggiunge che nessuno di essi riesce a superare la propria condizione se non nella catarsi conclusiva, tanto da avere l’impressione, anche nei duetti, di mettere a nudo la propria incomunicabilità nei confronti di un mondo indifferente al proprio rovello, si ha un’ulteriore prova della modernità di concezione di un’opera che, per non perdere un solo istante del suo drammatico divenire, andrebbe meglio eseguita come atto unico, secondo le originarie intenzioni dello stesso compositore, in luogo dei canonici tre della divisione tradizionale.
A incorniciare la disperazione interiore dei personaggi, in un contrasto reso sovente più acuto dal distacco emozionale (l’allegria delle filatrici e dei marinai norvegesi) o dal dolore amplificato (il canto spettrale dell’ equipaggio olandese), sono gli episodi collettivi, scolpiti dal podio con energica precisione grazie all’aiuto del sempre eccellente Coro ‘Ruggero Maghini’ di Torino rinforzato per l’occasione da elementi dell’altrettanto valido Coro Filarmonico Slovacco, sotto le guide, rispettivamente, di Claudio Chiavazza e Jozef Chabroň.
Talvolta alcune raffinatezze del discorso sinfonico vanno perdute, sommerse dall’enfasi del racconto (è il caso, su tutto, delle movimentate e leggere figurazioni tra archi e fiati sullo sfondo del dialogo tra Senta, Mary e le ragazze nella prima scena del secondo atto), in relazione a una prova superba per precisione, colore e personalità di tutta l’Orchestra Sinfonica Nazionale.
Ottimo è il sestetto vocale, oggetto, al pari di tutti gli interpreti, di dieci minuti di applausi ininterrotti, in una serata tra le più attese delle stagione: Tómas Tómasson, basso-baritono dal fraseggio perfetto e dall'intonazione felice, è un Olandese ideale, allo stesso modo di Daland, cantato dal basso Kristinn Sigmundsson. Il loro duetto nella scena seconda del primo atto è memorabile per pathos e intensità. Il soprano statunitense Amber Wagner (nomen omen!), già molto applaudito nel ruolo di Senta poche settimane fa a Santa Cecilia sotto la direzione di Mikko Franck [leggi la recensione], sfodera una prestazione eccezionale: la sua voce di grande potenza, senza la minima incrinatura, capace di una grande varietà di sfumature in ogni registro ne fa una delle migliori cantanti in circolazione per questo repertorio. Meno brillante, nei limiti di una sostanziale correttezza, è la recita di Sarah Murphy come Mary mentre tra la coppia di tenori Rodrick Dixon (Erik) e Matthew Plenk (timoniere), emerge fin dalle prime battute il secondo, timbro fresco, morbido e gradevole. Dotato di una tessitura più scura, talvolta in ombra nella lunga scena con Senta nel secondo atto, Dixon esce sulla distanza con un finale di maggior spessore, guadagnandosi con tutto il cast le ovazioni della platea.
foto Maria Vernetti