Da Strehler a Stein
di Francesco Lora
Ripresa del Simon Boccanegra all’Opera di Stato di Vienna, nell’allestimento creato a Salisburgo e passato per Firenze: il primo interesse va alla compagnia di canto, ove figurano Thomas Hampson, Dmitry Beloselskiy, Francesco Meli e Marina Rebeka.
VIENNA, 13 maggio 2018 – Mentre questa recensione finisce nero su bianco, Rai5 trasmette una sua perla d’archivio: il Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi nelle recite del 2002 al Maggio Musicale Fiorentino, con la concertazione di Claudio Abbado e la regìa di Peter Stein, le scene di Stefan Mayer e costumi di Moidele Bickel; un allestimento a suo tempo coprodotto col Festival di Pasqua di Salisburgo, il quale servì soprattutto a dimostrare l’irripetibilità – anche nelle ricadute sul direttore e sui cantanti – di quello con regìa di Giorgio Strehler e scene e costumi di Ezio Frigerio. Detto in breve: una lettura del testo non analitica, un mediocre lavoro con gli attori, disordinato eclettismo storico nelle scene ora dipinte ora costruite, che qui e là si piccano di evocare Genova con gli occhi di chi non la conosce davvero, costumi variati intorno alla nullità rinunciataria del cappotto. Fatto curioso, questo allestimento indegno degli annali è invece tuttora in uso frequente: l’Opera di Stato di Vienna possedeva una gloriosa copia di quello di Strehler e Frigerio, conforme all’originale del Teatro alla Scala, ma dopo averla smantellata ha acquisito proprio l’immeritevole spettacolo coprodotto tra Salisburgo e Firenze; quest’ultimo è così divenuto uno dei rarissimi allestimenti che, ripresi quasi ogni anno nel massimo teatro austriaco, non abbiano lì visto la luce ma vi siano giunti per vie traverse.
Il più recente ciclo di recite ha avuto luogo dal 6 al 13 maggio, interessando soprattutto per l’appeal della compagnia di canto. Pregio perlopiù massmediatico in Thomas Hampson come protagonista: il declino traspare nell’affanno del cantabile su lunghi periodi melodici, nonché nelle forzature onde aumentare il volume o raggiungere l’acuto, ma anche nell’astuzia di modulare nell’àmbito del piano e del pianissimo, lì facendo valere la base tecnica e l’integra personalità del chiaro timbro; l’interprete rimane quello noto: vuoi affettato, vuoi calligrafico, vuoi iperrealistico nel porgere sino a reinventare la prosodia italiana; nondimeno degno di ammirata considerazione quando, trattando la continua romanza di Simone alla stregua di un Lied di Schubert, propone soluzioni d’inusuale eleganza alla prassi in Verdi. L’istrionico modello di Ferruccio Furlanetto si fa sempre maggior largo nello Jacopo Fiesco di Dmitry Beloselskiy, forte dell’esotico timbro slavo e di una consolidata regione grave. Francesco Meli si riconferma un Gabriele Adorno fragrante, appassionato, di riferimento, mentre accanto v’è la nuova Amelia Grimaldi di Marina Rebeka, belcantista di vaglia qui prestata a un tardo Ottocento (e a costo di qualche suono acidulo). Solido Orhan Yildiz come Paolo Albiani, e di sicura tenuta anche la direzione di Evelino Pidò al cospetto di un’orchestra che – si sa – non concede prove.
foto (c) Wiener Staatsoper GmbH / Michael Pöhn