Se finora la complicità dell’harem mozartiano risulta essere il vero motore dell’intera macchina teatrale, nel capitolo successivo della trilogia le donne appaiono semplici ingranaggi di un leveraggio drammaturgico molto più complesso e teatralmente irrisolto. L’oscurità del folto giardino delle Nozze si collega perfettamente al tenebrore imperante in questa produzione torinese di Don Giovanni (27 Giugno), eseguito nella versione viennese.
La regia di Michele Placido, ripresa da Vittorio Borrelli, disloca l’azione in un contesto non ben definito: non si sa se si tratti della Sicilia o della Spagna, ma la ricostruzione di ambientazioni rurali e alcune trovate teatrali (la contadina che infastidita ritira le lenzuola esposte per ostentare la purezza di Zerlina sposa durante la canzonetta «Deh vieni alla finestra») instillano l’idea di un losco meridione. Si enfatizza molto, troppo, al limite del soffocante, l’alone gotico che circonda l’intera vicenda – acuito oltremodo dalle scenografie tetre e dai costumi luttuosi di Maurizio Balò, dalle luci basse e fisse di Andrea Anfossi e dal mortuario panneggio utilizzato nei cambi di quadro – senza però soffermarsi per investigare una caratterizzazione più sfaccettata dei personaggi. Specialmente le donne soffrono di questa superficiale dipintura, ridotte infine a un muto calderone di difetti (Donna Anna è defraudata di impeto, Donna Elvira anticipa le manie degli stalker, Zerlina è lasciva).
Daniele Rustioni, debuttante nell’opera, con un abile gioco di prospettive interpretative sa imporre alla concertazione dinamiche e timbrature contrastanti, valorizzando l’aspetto serio della vicenda senza rinunciare a cabrate parodistiche. Ne è lampante esempio il preludio iniziale, un tormentoso avvicendarsi di luci e ombre dove alle mestizia delle incisive arcate iniziali, viepiù intensificate dai parossistici rintocchi dei timpani, seguono volate leggiadre e solari. Rustioni pronuncia tese dinamiche e controlla le relazioni agogiche col solo obiettivo di sostenere, meglio della regia, l’irruento effluvio emotivo straripante dalla partitura. Il giovane direttore cura sempre con grande dedizione gli intrecci strumentali, riservando ai legni e agli ottoni ampi spazi di emersione, con risultati a volte discutibile seppur legittimi (troppo invasivi nella celebre aria di Leporello). Buona la prova del maestro Gianandrea Agnoletto al fortepiano.
Di spicco le voci maschili. Carlos Álvarez è il trionfatore della serata: la vera definizione di Don Giovanni si sostanzia nella sua eccellente prova. L’emissione sicura permette di carpire ogni dettaglio della complessa personalità che attinge fascino all’accuratezza musicale e interpretativa. Dai recitativi all’incantevole aria «Deh vieni alla finestra», trasudante di sfumature, la ricercata costruzione scenica, il nitore del fraseggio e la malleabilità del colore definiscono la lettura perfetta dell’inafferrabile seduttore. Al Don Giovanni di Carlos Álvarez fa da contraltare l’egualmente valido Leporello di Mirco Palazzi. L’espressione è ovunque ragionata e misura, scevra di banali eccessi, la voce tornita con audaci dinamiche e la tecnica solida consente sicuri scatti virtuosistici. Juan Francisco Gatell (Don Ottavio) lavora molto sulla punta, assesta belle mezze voci in «Dalla sua pace» e si fa sonoramente apprezzare per l’audacia palesata nella seconda aria. Fabio Maria Capitanucci, baritono dal timbro chiaro, veste i panni dell’ingenuo Masetto. Gianluca Buratto, basso dallo strumento portentoso, differenzia con grande effetto le due declinazioni del commendatore, prode in vita, sinistro e solenne da morto.
Carmela Remigio vanta un materiale vocale di grande pregio. Il timbro vellutato contraddistingue la cantante, la sofisticata tecnica rinvigorisce la vocalista, lo stile e la musicalità completano la grande artista. La prova non procede senza intoppi, questo è vero (c’è qualche imprecisione di intonazione nel «Mi tradì quell’alma ingrata»), ma la classe della sopraffina belcantista vola oltre l’inanellamento di sterili note. Rocío Ignacio ha una voce importante ma alcune vocali sono eccessivamente aperte e schiacciate. La tenuta delle fioriture è lodevole e la ricchezza sonora conferisce a Zerlina una caratura più sostanziosa. Erika Grimaldi mostra invece il fianco nell'impervia ultima aria di Donna Anna. Il soprano astigiano si fa apprezzare maggiormente nei momenti di abbandono melodico sfoggiando pregevoli messe di voce. Manca però intenzione al personaggio, piuttosto sommesso.
foto Ramella e Giannese