Torna, Israello, torna!
di Andrea R. G. Pedrotti
Continua a non convincere la fantasiosa rivisitazione risorgimentale di Arnaud Bernard del Nabucco verdiano, che torna all'Arena di Verona in una ripresa in cui si apprezzano soprattutto le voci di Amartuvshin Enkhbat, Rafal Siwek e Luciano Ganci.
VERONA, 7 luglio 2018 - In una serata metereologicamente perfetta per una rappresentazione areniana, il primo colpo d’occhio è favorito dalla saggia decisione del sovrintendente Cecilia Gasdia di sostituire fastidiosa gru gialla posta dietro la scenografia con un’altra pieghevole, in modo da non disturbare la visuale del pubblico.
Sul palcoscenico dell’anfiteatro abbiamo, poi, avuto modo di osservare una vicenda che già si era manifestata fra i marmi scaligeri il 23 giugno del 2017 [leggi la recensione]. La storia è questa: nel mezzo della scena si erge un isolato palazzo quadrato dalla facciata simile alla Scala di Milano, circondato da alcune barricate ottocentesche. Sulla facciata dell’edificio penzola mestamente un grande tricolore italiano d’età repubblicana. Parrebbe una ricostruzione di Milano, se non fosse che la città è presidiata da guardie in divisa piemontese. Tuttavia, in quel mentre giungono i Martinitt e Milano vince di misura.
L’Aedo che ha ideato la vicenda (Arnaud Bernard) lo scorso anno, parlò di una narrazione ispirata alle Cinque giornate di Milano (dunque perché bandiere italiane e soldati piemontesi?) e al celeberrimo film di Luchino Visconti Senso, facendo diventare Venezia terzo incomodo fra torinesi e meneghini.
Milano (città vittoriosa di misura sulle concorrenti) viene invasa dai soldati asburgici, anche se gli austriaci nel 1848 a Milano erano già presenti, che spodestano il legittimo governo di un’Italia che ancora non esisteva, ammainano una bandiera dalla foggia che ancora non era stata concepita e s'impongono nel sangue dei soldati sabaudi, che non potevano trovarsi a Milano all’epoca indicata dal regista.
I sanguinari invasori di una città che storicamente era già sotto il loro controllo si dilettano a sparare a passanti con vistose cravatte tricolore in abiti carbonari. Persino la loro condottiera, tale Abigaille (nome tipicamente crucco) ama trastullarsi finendo patrioti rantolanti, per poi soffiare via il fumo dalla rivoltella, al pari della più spietata Calamity Jane delle Alpi.
Giunge ora il condottiero: un sosia di Francesco Giuseppe, ma di come sarà Francesco Giuseppe parecchi anni dopo, anche considerato nel 1848 era fresco imperatore diciottenne: sappiamo che i ritrattisti d’ogni tempo erano maestri nel celare l’incedere del tempo, tuttavia l’invecchiamento precoce del monarca appare eccessivo.
Il Cecco Beppe scaligero proclama occupata Milano e decide di porre sede del governo nel ridotto della Scala. Abigaille, sua figliastra, si dimostra abbastanza tesa per colpa di un giovane ufficiale avversario, tanto da non accorgersi che, sempre all’interno della Scala dove gli austrici avevano sede governativa, un Mazzini dalla calvizie incipiente riceve segreti dispacci (teneva molta alla causa, arrivando a chiamarli “Santo Codice"), dal fido agente Levita. È proprio qui, sotto il vigile occhio dei soldati di Vienna, che la Giovine Italia anti-asburgica prende forma.
Tutto cambia quando Cecco Beppe viene ferito, in un attentato, dopo essersi proclamato Dio. La ferita gli fa perdere la ragione ed è costretto a riparare all’interno della Scala (notoriamente eccellente nosocomio).
La figliastra Abigaille è parecchio nervosa, anche per il rifiuto del giovane soldato italiano, e appare assai sfrontata nei confronti del patrigno infermo, segno della progressiva decadenza del rispetto per la figura genitoriale.
Persino nel recarsi alla Scala (spazio invero multifunzionale) per assistere a un Nabucco arricchito da una Menorah cartonata, si avvicina al suo posto di platea agitando le mani in aria, quasi fosse desiderosa di emulare Ammazzasetteseminarovina nello sterminio dei ditteri (avevamo notato quanto fosse sanguinaria, no?), vista l’impossibilità di gustare datteri da una palma grigioverde, cartonata al pari della Menorah, posta sullo sbilenco palco della Scala.
Un omaggio alla musica è il rinsavire di Cecco Beppe che abbandona mustacchi e basettoni per riscoprirsi patriota italiano (e qui si comprende come la fedeltà alla tenuta di un impero sia in pugno a una rasatura) e cantante lirico, protagonista del Nabucco, andato in scena alla Scala (dietro la porta del suo ufficio), dove ritrova Mazzini come Zaccaria (anch’egli, d’altra parte aveva l’ufficio lì accanto).
La storia ci lascia sinceramente perplessi, finché Zaccaria\Mazzini non canta la frase “piomba già sula perfida arena\ del lione di Giuda il furor”. Il lione di Giuda? Ma che cosa c’entra e perché Cecco Beppe, Mazzini e i rispettivi sodali hanno passato la serata a parlare di Ebrei? Nella Scala riprodotta si intona “Va’ Pensiero” e sono le stesse comparse a chiederne il bis (non il pubblico in Arena), casomai non avessimo compreso bene. Qui si parla delle torri di Sionne? Del fiume Giordano? Ma non è che questo dovrebbe essere Nabucco? Meglio scacciare questo pensiero: in un Nabucco si parla di Ebrei, ma qui sono censurati, tuttavia è curioso vengano nominati di continuo. Scacciamo il pensiero polemico e pedante per ammirare Cecco Beppe (rasato e ingrato con la figliastra, come lei lo era stata col patrigno) a lanciarle sdegnosamente un tricolore, ma accade che, dietro di lui, appare una donna omonima (anch’essa Abigaille e siamo allo sdoppiamento della personalità) che muore dopo l’invocazione all’immenso Jehovha. Fermi tutti! Jehovha? Ancora Ebrei? Ma perché Mazzini parlava di “Gloria d’Israele”? Si crede d’essere Theodor Herzl? Un suddito di Francesco Giuseppe? Impossibile! Mancavano ancora quarantotto anni alla pubblicazione di Der Judenstaat in Austro-ungheria. In Austria? Ma se gli ebrei non esistono (quindi nemmeno Theodor Herzl), sebbene vengano nominati di continuo in questa produzione piena di austrici? Assiri? Ebrei? Sionne? Il Giordano? Che fine hanno fatto? Troppe domande, ma lasciamo fiduciosi all’acume del lettore risposta ai nostri quesiti.
In ogni caso, nel riproporre un titolo conosciuto come Nabucco, è difficile proprio perché il cimento consiste nel raccontare in modi diversi la stessa storia, non nello stravolgerne la drammaturgia. Se si volevano trovare riferimenti storici fra Ebrei e le popolazioni residenti fra il Tigri e l’Eufrate ne avremmo avute in abbondanza dai tempi di Mosé ai giorni nostri, rispettando (ma non condividendo) l’idea di voler mettere in piedi una produzione simile a un kolossal di ripiego della gloriosa Titanus.
Da parte nostra crediamo sarebbe meglio che una Fondazione lirica come l’Arena di Verona non si lasciasse andare a siffatte produzioni ed esca dal provincialismo, come aveva tentato di fare, finché le circostanze lo consentirono, la direzione artistica di Paolo Gavazzeni. Per fortuna l’attuale sovrintendente, Cecilia Gasdia, ha già dato importanti segnali di inversione di tendenza, puntando alla crescita qualitativa degli spettacoli, come già dimostrato dalle poche, ma sostanziali, iniziative prese, come la recente (bellissima) Salome del teatro Filarmonico [leggi la recensione], migliorie nei cast di questa stagione (le regie non sono sua responsabilità) e importanti progetti per il futuro, fra cui, ma non solo, il debutto di Anna Netrebko del 2019.
Musicalmente (a differenza dello scorso anno) le cose vanno decisamente meglio, se non fosse per la negativa prova di Susanna Branchini (Abigaille), costretta spesso alla declamazione, se non al parlato, dall’emissione vistosamente oscillante e dalla recitazione fin troppo caricaturale.
Ottimo vocalmente, ma comprensibilemente spaesato scenicamente, il Nabucco (Cecco Beppe per chi non l’avesse capito) di Amartuvshin Enkhbat, dotato di bel mezzo vocale, buona tecnica e dizione cristallina. Sicuramente presenta margini di miglioramento, ma le premesse sono eccellenti, in vista d’una luminosa carriera.
Migliori in assoluto del cast sono l’impeccabile Zaccaria di Rafal Siwek e l’Ismaele di un Luciano Ganci che consolida sempre più la sua posizione di tenore di prim’ordine per il repertorio lirico italiano e francese. Bene anche la Fenena di Géraldine Chauvet.
Completavano il cast Nicolò Ceriani (Gran Sacerdote di Belo), Roberto Covatta (Abdallo) e Elisabetta Zizzo (anna).
Molto bene tecnicamente la concertazione di Jordi Bernàrcer, nonostante le continue esplosioni e i rumori di scena (specialmente nel primo atto), sistematicamente inseriti sopra il canto o i momenti orchestrali. Riguardo la sua scelta interpretativa, se ci aveva convinto in Aida [leggi la recensione], nella sera nel 7 luglio, avremmo preferito ascoltare maggior piglio, specialmente in momenti colmi d’intensità drammatica come la stretta del finale primo o la splendida profezia del finale terzo “Oh, chi piange? - Del futuro nel buio”.
Magistrale la prova del coro della Fondazione Arena, quest’anno in forma smagliante, a onore e merito del suo maestro Vito Lombardi.
Le scene di Alessandro Camera creano grandi problemi all’acustica, non favorendo una corretta propagazione del suono. Per esempio la forma della finta Scala spezza in due il palcoscenico, non consentendo un’udibilità accettabile e uniforme a seconda della posizione degli interpreti. Peccato, perché, nonostante sia uno spazio all’aperto, l’Arena di Verona ha sempre palesato un’ottima acustica, perlomeno dal palcoscenico, meno dalla buca dopo la cementificazione del fondo del golfo mistico.
Regia e costumi erano affidati a Arnaud Bernard.
foto Ennevi, Arena di Verona