Shakespeare prima di Bellini
di Francesco Lora
Al Festival della Valle d’Itria si ritrova Giulietta e Romeo di Nicola Vaccai, diretta con poco nerbo da Sesto Quatrini (autore dei recitativi accompagnati, posticci) ma con un eccellente comparto femminile: Leonor Bonilla, Raffaella Lupinacci e Paoletta Marrocu.
MARTINA FRANCA, 31 luglio 2018 – Straordinaria caccia al biglietto e straordinario successo di pubblico per lo spettacolo inaugurale del Festival della Valle d’Itria: Giulietta e Romeo di Nicola Vaccai, rara «tragedia per musica» con due prime recite il 13 e 15 luglio, nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, e una terza ivi il 31, in quella fase terminale del festival durante la quale si può assistere consecutivamente a tutte le opere in cartellone. A solleticare l’attenzione di ogni classe di spettatore è innanzitutto il titolo, con la sua rassicurante derivazione da Shakespeare. Poi va dato campo a qualche considerazione. Giulietta e Romeo è soprattutto un interessante documento storico sul breve interregno artistico tra l’addio di Rossini all’opera italiana e l’avvento in grande stile di Donizetti e Bellini. Vede riaffermata la scuola napoletana fatta di tenerezze melodiche e cantabili patetismi, in faccia alla brillantezza un po’ filopadana e un po’ filotedesca del rossinismo allora imperante. Conobbe all’epoca un consenso lusinghiero ma non sbalorditivo; fu creata nel 1825 alla Canobbiana di Milano, circolò per un decennio senza mai arrivare alla scena decisiva del S. Carlo di Napoli, finì sepolta proprio allorché si tentò il rilancio: cioè nel 1835, quando Vaccai rimodellò una sfortunata seconda versione per il Teatro alla Scala e per Maria Malibran. Se oggi serbiamo memoria di Giulietta e Romeo, è soprattutto per via di un aneddoto e di un paradosso: l’aneddoto è quello della Malibran stessa che nel 1832 canta al Comunale Bologna I Capuleti e i Montecchi di Bellini – medesimo soggetto e medesimo librettista, Felice Romani, ma rari versi in comune e diversa drammaturgia – pretendendo d’interpretare l’omologo finale di Vaccai in luogo di quello originale; il paradosso è quello del capolavoro belliniano, che da una parte ha fatto piazza pulita di ogni precedente opera sullo stesso soggetto (non solo quella di Vaccai, ma anche l’omonima di Zingarelli), dall’altra – nella nuova epoca di renaissance belcantistica e curiosità filologica – invoglia in modo specifico a riscoprire partiture con esso imparentate. In definitiva: è qui in oggetto un titolo con statura storica e testuale da non confondere con il mito, ma con indiscutibili spunti d’interesse e calzante alla missione etica del festival itriano.
Per riabilitare un’opera dormicchiante, però, meglio sarebbe stato far capo a una concertazione con più nerbo di quanto ne ecciti qui Sesto Quatrini. A lui e a Carmen Santoro si deve inoltre lo spensierato stralcio di tutti i recitativi secchi originali, sostituiti d’impero e senza appiglio storico-scientifico con altri, accompagnati, da loro composti. Perché annacquare così lo speciale risalto drammatico dei pochi passi già accompagnati in Vaccai? Come si può tacere il grottesco scollamento stilistico tra le pagine autentiche e quelle posticce? Perché esporre a un arbitrio arrogante e maldestro un festival che si fregia di pretese filologiche? Altre erano le priorità da porsi. In primis lo svezzamento della giovanile Orchestra Accademia Teatro alla Scala: i suoi elementi vantano solidità tecnica, ma il loro senso del farsi compagine coesa, dell’accompagnare il canto e di servire il teatro è ancora in formazione. Al contrario, qualche menda di solfeggio si perdona al Coro del Teatro Municipale di Piacenza: l’opera romantica ottocentesca fa parte del suo patrimonio genetico e se ne giova con fragranza. Parlando delle tre soliste femminili, si dà poi conto di un’eccellenza. Non si saprebbe infatti chi preferire a Leonor Bonilla, soprano dalla modulazione sicura, sfumata, vaporosa, in vista di una Giulietta tanto adolescenziale e commovente quanto pur sempre dotata di grinta da primadonna. Millimetrico è il suo equilibrio con il mezzosoprano Raffaella Lupinacci: come Romeo, controlla senza artefazioni una tessitura assai grave, sgrana con elettrico mordente i passaggi di agilità, connota virilmente la parte ma non calca in ciò la mano. Incisivo è a sua volta il cammeo di Paoletta Marrocu nei panni di Adele, mentre il discorso si fa più ordinario circa il comparto maschile. Christian Senn, come Lorenzo, è un esempio di misura, eleganza e forbitezza, ma piuttosto grezzi sono i modi dell’altro baritono Vasa Stajkic come Tebaldo. Svettante voce tenorile ma confusione tra autorevolezza d’accento e iperrealismo espressivo nel Capellio di Leonardo Cortellazzi. Più descrittiva che analitica – ma l’opera questo richiede – si attesta la regìa di Cecilia Ligorio: la assecondano le scene di Alessia Colosso, ove i guelfi Capuleti vivono in un palazzo con merli ghibellini, e l’ennesima sontuosa galleria di costumi firmata da Giuseppe Palella.