Ch’hai di nuovo, buffon?
Una bella produzione di Rigoletto inaugura la stagione lirica del Teatro Coccia di Novara: Paolo Gavazzeni e Pietro Maranghi firmano la regia di uno spettacolo lineare ed elegante. Eccellente debutto nel ruolo eponimo di Roberto de Candia, meno convincente la concertazione di Matteo Beltrami.
Novara, 5 Ottobre 2018 – Siamo sinceri, l’inciso provocatorio rivolto, nella terza scena del secondo atto, dal Conte di Ceprano al tribolato giullare serpeggia sempre nei pensieri di chi scartabella, senza snobismo o pregiudizio alcuno, un programma di sala fregiato dal primo episodio della cosiddetta “trilogia popolare”. Del resto si tratta di una delle opere più conosciute al mondo e solo quest’anno, in Italia, conta ben altre undici produzioni (Bologna, Cagliari, Firenze, Macerata, Milano, Palermo, Ravenna, Roma, Salerno, Sassari e Torino). In un circuito così saturo e competitivo, allora, affrontare un Rigoletto può diventare, seppur nella rassicurante garanzia offerta dal titolo, un cimento non poco impegnativo per un ente lirico che voglia suggerire un’alternativa a quanto ormai il mercato operistico propina di continuo. Ne esce vittorioso, in quest’ottica, il Teatro Coccia di Novara, proponendo, in occasione dell’apertura di stagione, un’interessante messa in scena del capolavoro verdiano ispirata alla grande tradizione pittorica rinascimentale.
Raccontare qualcosa di nuovo in un’opera di tale notorietà potrebbe definirsi un’impresa quasi impossibile, e in effetti Paolo Gavazzeni e Pietro Maranghi non aggiungono nulla di diverso, ma l’importanza attribuita al dramma familiare del protagonista fa sì che esso non sia il risultato di una prevedibile narrazione drammatica, bensì la sua promessa e la sua ragione. Con una soluzione teatrale di forte impatto, essa prende appunto vita da una toccante pietà che, durante il preludio, ritrae la morte di Gilda tra le braccia del padre, assiso sul trono ducale, seguendo lo schema della manierista strutturazione triangolare ereditata dall’esperienza di artisti come Raffaello, Michelangelo o Da Vinci. Ne consegue una caratura dei personaggi più introspettiva, umana, specie nella figura di Rigoletto, più levigata e rotonda rispetto alle impostazione tradizionali. L’animosità del gobbo, tanto torvo quanto appassionato nella malata paternità, lascia adesso spazio a una conflittualità appena accennata, stemperata in una rassegnata insofferenza verso la corte e il potere che però non si traduce mai in esplosioni violente o veementi. L’impianto scenotecnico di Leila Fteita, sobrio, elegante e lineare trova la massima compiutezza nella monumentale cornice, sul boccascena, al raffinato olio su tela vivente, sviluppato su due livelli e immerso in un fondale carminio. L’intera vicenda si svolge all’interno del dipinto e solo all’inizio del secondo atto il coro conquista il proscenio per osservare dall’esterno i deliri amorosi del duca. Essenziali gli elementi di attrezzeria: un drappeggio dorato e un trono nella sala magnifica del palazzo ducale, una balaustra nella corte della casa del gobbo. Assecondano gli stilemi imposti dalla scuola cinquecentesca e impreziosiscono la dialogica visiva i bellissimi costumi di Nicoletta Ceccolini, molto curati nei particolari e vividi nei colori. Non meno esplicative sono le luci di Emiliano Pascucci, particolarmente efficaci nel quadro di apertura. L’unico neo va imputato alla scelta del materiale realizzativo per la grande cornice e forse per i torrioni laterali: difficile tacere la percezione di un’acustica compromessa dall’infelice fonoassorbenza del pratico polistirolo, soprattutto con voci ascoltate già in teatri dalla metratura più generosa del grazioso Coccia.
Non sempre convincente Matteo Beltrami alla guida dell’Orchestra del Teatro Coccia, rimpolpata nelle file dagli studenti del Conservatorio Cantelli di Novara. Se brio e lo slancio veicolano bene l’ebrezza delle parentesi festose, la concertazione manca di un’autentica intensità e dipana troppo frettolosamente le complessità di questa singolare partitura. Il tessuto ritmico è molto stressato, con tempi che si dilatano e stringono in continuazione, causando un risultato nel complesso un po’ lezioso e stucchevole: il cantabile del duetto tra Gilda e il Duca, ad esempio, suona come un’ansiosa barcarola. Beltrami mostra comunque un ottimo controllo dell’orchestra, invero spesso imprecisa e avara di colori, cantando con coro e solisti per tutta l’esecuzione dell’opera. Periclitante, alla luce dei suddetti problemi di acustica, l’equilibrio con il palcoscenico.
<p " align="JUSTIFY">Chi invece sa raccontare e aggiungere alla pubblicità del discorso inflessioni e sfaccettature intriganti è Roberto De Candia, al suo debutto nel ruolo eponimo. La finezza nel porgere, il gusto e l’equilibrio in un fraseggio sempre incisivo e variegato, la sensibilità alla parola scenica, ovunque tornita con garbato senso della misura e profonda attenzione al dettato musicale, sono i canoni di una poetica interpretativa da cui prende vita un uomo più mesto e tangibile, nobile e fiero, in perfetta armonia con l’oleografico sviluppo registico. È in questa dimensione che il baritono pugliese modella con accentazioni vibranti il suo istrionesco Rigoletto, cantato come scritto, senza le feroci puntature di tradizione, piuttosto ricercando nella solida linea di canto sfumature ed effetti di commovente eloquio drammatico. Sorprende osservare come De Candia coniughi con classe persino i movimenti scenici, glissando sul solito grottesco barcollamento e animando con movenze invece pulite e irrequiete un giullare malinconico, in alcuni momenti quasi antesignano del ben più complesso Falstaff.
Se De Candia risolve con classe e intelligenza un ruolo – almeno sulla carta – non scontato, Stefan Pop trova nel duca di Mantova una scrittura particolarmente congeniale tanto al cantante a quanto all’interprete: registro acuto facile e squillante (a meno dell’incrinatura finale nella ripresa de «La donna è mobile» dal retropalco), fare baldanzoso e piacentiere, canto luminoso e stentoreo, opportunamente smorzato con belle mezze voci, specie nel da capo della celeberrima canzone. Laddove la trama melodica si fa più lirica, qualche legatura sul fiato più sinuosa avrebbe regalato al signore di Mantova una caratterizzazione più articolata, ma l’irruenza nell’emissione fa guadagnare lui calorosi riconoscimenti a scena aperta. Anche Aleksandra Kubas-Kruk vince il confronto con la figura angelicata di Gilda, tutta trilli, acciaccature, sopracuti e filature. Al netto di un suono a volte fisso nella temibile «Caro Nome» e di qualche furbo portamento stile Gruberova, il soprano polacco, dalla voce cristallina e penetrante, mostra agio e plasticità nei duetti e nella scena finale, conquistandosi così una buona fetta di applausi. Non meno valide le voci comprimarie. La sensuale Maddalena di Sofia Janelidze, già apprezzata come Fenena nello scorso Nabucco, si distingue per una voce ben timbrata, corposa e avvolgente, ambrata nel colore. Andrea Comelli è uno Sparafucile ferino e statuario, con un mezzo vocale imponente. Completano il cast Stefano Marchisio (Marullo/Usciere), Fulvio Fonzi (Monterone), Ariol Xhaferi (Conte di Ceprano), Serena Muscariello (Giovanna/Contessa di Ceprano), Didier Pieri (Borsa) e Valentina Garavaglia (Paggio). Più che discreta la prova del coro istruito dal Maestro Marco Berrini.
foto Mario Finotti