Tra albe e crepuscoli
di Alberto Ponti
La parabola dell'Ottocento musicale si dispiega per intero dalla fulminante Quinta beethoveniana agli struggenti Kindertotenlieder
TORINO, 22 febbraio 2018 - 'Von keinem Sturme erschrecket,/Von Gottes Hand bedecket' ('da nessuna tempesta atterriti,/protetti dalla mano di Dio'). Con queste parole si conclude, approdo non solo simbolico sottolineato da una strumentazione finalmente distesa, l'ultimo dei cinque Kindertotenlieder che Gustav Mahler (1860-1911) trasse nel 1905 da testi dell'omonima raccolta pubblicata più di settant'anni prima dal poeta romantico Friedrich Rückert sulla scorta del dolore per la perdita di due suoi figli piccoli. Per tragica quanto involontaria premonizione anche il compositore, che aveva già perso un fratello adolescente, sarebbe stato privato due anni dopo della figlia primogenita Maria, appena bambina.
La lettura che ne hanno dato all'auditorium Toscanini, giovedì 22 e venerdì 23 febbraio, il mezzosoprano Michelle Breedt con il direttore Hartmut Haenchen, affiancati da un'eccellente Orchestra Sinfonica Nazionale, scava con intensità nel dolente pathos del sentire mahleriano, illuminando di bagliori subitanei quanto passeggeri una scrittura dal colore scuro e compatto, da cui sono assenti, con la loro pienezza, trombe e tromboni. Accantonati i turgori della coeva settima sinfonia, con quel finale trionfale e interrogativo allo stesso tempo, qui lo sguardo sembra già anticipare Schönberg e Alban Berg, che facevano negli stessi anni il loro esordio soprattutto come autori di lieder.
La visione della coppia di interpreti privilegia la pungente asciuttezza di pagine magistrali nel dosaggio timbrico, con gli strumenti spesso impiegati in passi solistici e a piccoli gruppi, come nell'iniziale Nun will die Sonn' so hell aufgeh'n introdotto da un sommesso, inconsolabile dialogo tra oboe e corno, o nel successivo Nun seh' ich wohl, warum so dunkle Flammen con la voce umana a scogliere un canto sommesso sostenuto dai rintocchi dell'arpa fino ad estinguersi alle soglie del silenzio su un pianissimo degli archi divisi.
La maestria della Breedt nel condurre una linea melodica di sobria ma emozionata misura emerge in Wenn dein Mütterlein e Oft denk' ich, sie sind nur ausgegangen, i pezzi più descrittivi del ciclo nell'evocare i bimbi che non sono più, con un'aura crepuscolare ad avvicinarli, con quasi mezzo secolo di anticipo, ai Vier letzte Lieder straussiani. Arte infinita, destinata ad incontrarsi in un universo senza tempo: laddove lo sguardo d'addio del compositore tedesco è rivolto nostalgicamente a un mondo passato e distrutto, Mahler, attivo in quel passato mitizzato, ne avverte con ineludibile precisione i presagi della prossima disgregazione. Nel conclusivo In diesem Wetter, dal discorso sinfonico concitato e fremente, l'intesa tra la cantante di origine sudafricana, che si abbandona a tratti a un vero e proprio sprechgesang di sapore già espressionista, e la bacchetta di Haenchen raggiunge il suo culmine, tra gli incisi spesso strozzati dell'orchestra placati solo nel Lento delle ultime battute.
L'Ottocento di cui i Kindertotenlieder costituiscono, già nel territorio del secolo seguente, uno degli estremi epiloghi aveva trovato, ancora al suo sorgere, una delle sue più folgoranti epifanie con la Quinta sinfonia in do minore op. 67 (1808) di Ludwig van Beethoven (1770-1827), archetipo di una serie infinita di bildungsroman in musica. Un'esecuzione rocciosa e incalzante ci è stata regalata da Haenchen. Tra la serrata concitazione dei tempi veloci, con il finale messo a nudo nel suo fenomenale rigore costruttivo senza alcuna compiaciuta grandeur, si librava un Andante con moto intriso di stupefatta meraviglia contemplativa, germogliante dal calore contagioso di violoncelli e contrabbassi in totale simbiosi col gesto ispirato proveniente dal podio.
Il pubblico, affluito numeroso, ha premiato tutti i protagonisti di un serata iniziata sotto i migliori auspici sempre nel segno di Mahler, con il raro ascolto di Blumine, in origine breve secondo movimento della sinfonia n. 1 (1888). Un cullante assolo di tromba si staglia sulla delicata campitura degli archi. Miniatura di grazia schubertiana, poi espunta dallo stesso autore, ritenuta fuori luogo tra i vapori sulfurei del suo Titano.