Lobgesang, genio a mezzo servizio
di Alberto Ponti
Il direttore giapponese ritorna a Torino con le prime due sinfonie di Mendelssohn
TORINO, 29 marzo 2018 - Lasciammo Kazuki Yamada, un paio di settimane or sono, in mezzo agli splendori del sontuoso sinfonismo francese di Chabrier e Roussel [leggi la recensione]. L'abbiamo ritrovato, mercoledì 28 e giovedì 29 marzo, ancora alla guida dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, calato nel pieno romanticismo della Sinfonia n. 2 in si bemolle maggiore op. 52 Lobgesang (1840) di Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847).
Assai originale nella forma, a metà strada tra la cantata e la sinfonia vera e propria, l'ambiziosa ed imponente partitura costituì già in passato uno scoglio per quasi tutti i direttori tanto che nel repertorio di molti tra i più celebri, non a caso, non comparve mai. Non ripercorreremo qui i celebri giudizi contrastanti dei contemporanei (dalla stroncatura di Wagner alla riabilitazione di von Bülow) ma la ragione è probabilmente una sola: pur aleggiando dalla prima all'ultima nota l'inventiva di uno tra i massimi geni musicali di ogni epoca, l'opera non si innalza mai al livello del capolavoro. Eppure gli ingredienti potevano esserci tutti: il periodo di massimo fervore creativo di un compositore acclamato da tutta Europa, la prestigiosa commissione offerta dalla celebrazione di Gutenberg, nume della cultura non solo tedesca, il solenne testo tratto dalla Bibbia, la première nella Thomaskirche di Lipsia intrisa di spiriti bachiani.
Alla storia d'altronde non si può comandare: incalzati e tormentati dall'inevitabile confronto con Beethoven (nel Lobgesang scoperto è il richiamo alla Nona) tutti i grandi, da Mendelssohn a Schumann passando per la meteora di Schubert, che nei decenni successivi si cimentarono nel genere più ambito, seguiti a ruota da figure minori con i testa i Raff, i Lachner, i Kalivoda in realtà poco o nulla aggiunsero rispetto al modello. Mezzo secolo dovrà trascorrere prima di giungere, con Brahms, alla vera sinfonia postbeethoveniana.
La visione del maestro giapponese, improntata alla massima chiarezza di ogni voce, raggiunge esiti ragguardevoli nel primo movimento, Maestoso con moto-Allegro, di gran lunga superiore a tutto il resto, dove il complesso intreccio polifonico è vivificato da un gioco serioso e brillante allo stesso tempo, sigillo dell'inconfondibile cifra stilistica mendelssohniana. Il passaggio dalla solenne melodia introduttiva esposta dai tromboni allo scattante primo tema, sovente marcato con ruvida bruschezza, avviene con una naturalezza di gesto così istintiva da lasciare stupefatti, rivelatrice dell'intesa tra musicisti e direttore e del profondo lavoro di preparazione compiuto da Yamada con l'orchestra. Un velo di sottile malinconia si distende sulla sommessa cantabilità della seconda idea delle viole e dei legni per espandersi, nell'Allegretto un poco agitato e nell'Adagio religioso, a livelli di intensa emozione.
Rimane il colossale finale, con l'intervento dei bravi solisti Bernarda Bobro e Sabina von Walther, soprani, e del tenore Johannes Chum, affiancati dalla splendida prestazione del coro 'Ruggero Maghini' guidato da Claudio Chiavazza. Qui Mendelssohn, nonostante la vastità dei mezzi impiegati, non riesce a spingersi oltre l'occasione celebrativa, dispiegando in verità una capacità di scrittura straordinaria che rende giustizia all'attento studioso di Bach ma che, contrariamente agli esiti dei capolavori corali del sommo Johann Sebastian, non arriva quasi mai al cuore dell'ascoltatore. Dal podio proviene una concertazione sempre curata nei dettagli, capace di valorizzare in modo quasi violento l'impressionante moto liberatorio del coro Die nacht ist vergangen allo stesso modo dell'intimità di passi come Drum sing' ich mit meinem Liede giocato su un dialogo di estatica drammaticità tra tenore e soprano.
Il pubblico dell'auditorium Rai non rimane certo indifferente a uno dei pezzi più grandiosi eseguibili in una sala da concerto, tributando ripetuti e meritati applausi a tutti i protagonisti, con una menzione speciale per Yamada che, come aperitivo, aveva proposto, sempre del medesimo autore, anche la Sinfonia n. 1 in do minore op. 11 (1824). Composta guardando più a Mozart che a Beethoven, la deliziosa pagina mostra già quell'enorme talento pronto, subito dietro l'angolo, a prendere il volo verso le vette dell'Ottetto per archi e dell'ouverture A Midsummer Night's Dream.
foto Maria Vernetti