Sic parvis magna
di Alberto Ponti
L'Orchestra Sinfonica Nazionale, sotto la bacchetta del suo direttore principale, propone un inconsueto programma di stampo cameristico
Ci aveva abituati James Conlon, nelle ultime stagioni dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, a un suono sontuoso, brillante, quasi patinato, soprattutto adatto a un certo repertorio otto-novecentesco che ben si addice per forze in campo e tradizione esecutiva a gesti spettacolari, pitture a grandi pennellate, cavalcando nelle praterie del sinfonismo con sguardo ben puntato verso l'orizzonte senza lasciarsi troppo distrarre dalle tracce meno battute dei sentieri laterali. Americano per formazione e sensibilità, cosmopolita per carriera ed esperienze, egli, benché amante e conoscitore del nostro paese, dà spesso l'impressione di trovarsi più in sintonia nel guidare una sontuosa berlina con cambio automatico su una highway dall'ampia carreggiata che una nervosa auto sportiva tra le curve infinite e gli improvvisi ostacoli di una pittoresca strada italiana lambita da antiche vestigia.
È dunque una visione meno frequente, ma non per questo meno riuscita, quella di un direttore per una volta alle prese con organici ridotti, sottile indagatore di profondità abissali che si spalancano improvvise tra le pieghe della serenata (Nachtmusik)in do minore per otto fiati K 388 (1782) di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), eseguita in apertura del concerto di giovedì 17 e venerdì 18 maggio.
In realtà l'opera, equivalente ad una sinfonia nella concezione (soli quattro tempi, con eliminazione di danze e marce tipiche del genere se si esclude un minuetto in forma di canone) va annoverata tra i capolavori del suo autore. Già la scelta della tonalità non appare casuale, considerata la parsimonia nell'utilizzo del modo minore da parte del salisburghese, facendone nella fattispecie un caso pressoché unico nelle sue composizioni d'occasione. Di fronte agli otto solisti la mano di Conlon si limita a poche indicazioni asciutte e discrete, senza la rinuncia a tempi serrati che, nell'incedere drammatico del discorso, appena rischiarato dal sublime Andante in mi bemolle e da un enigmatico do maggiore nelle battute conclusive, lasciano intravedere stupefacenti premonizioni sui decenni a venire. Se nello sviluppo del primo movimento pare per un attimo di cogliere un celebre passo della Quinta beethoveniana, sarà ancora il genio di Bonn a fare tesoro della pagina: nell'ossatura dell'Allegro finale è già in fieri il tema principale del rondò del terzo concerto per pianoforte, non a caso nel medesimo do minore.
Dopo tanta conturbante densità, la brillante ironia del celebre Carnaval des animaux (1886) di Camille Saint-Saëns (1835-1921) funge da camera da decompressione, grazie a una direzione garbata, in sintonia con lo humour di altre undici prime parti del complesso della Rai.
Musica nella musica, insaporita come il brano precedente da prestiti propri e altrui, talvolta dichiarati già nel titolo (Minuetto di Lully) si può anche definire la suite Der Bürger aus Edelmann op. 60 tratta nel 1918 da Richard Strauss (1864-1949) dalle musiche di scena per l'omonima commedia di Molière (Le Bourgeois gentilhomme). Forte di un organico maggiore (una trentina di elementi in tutto) la partitura rivela la straordinaria capacità di Strauss nel rifarsi a stilemi del passato dopo la virata tradizionalista del Rosenkavalier. In realtà i tre pezzi di Jean-Baptiste Lully, rivissuti e attualizzati, sono il pretesto per la creazione di un insieme più vasto e originale (diciassette numeri, ridotti a nove nella suite) in cui l'inventiva di uno tra i massimi orchestratori di ogni epoca riesce a immettere una connotazione personale in ogni voce, dai preziosi ricami del primo violino (Alessandro Milani) nell'Entrata e danza dei sarti, al delicato assolo di tromba che apre Il maestro di scherma per arrivare all'ironica citazione de La donna è mobile dell'oboe nel Convitto a rimarcare, sancendone allo stesso tempo il divario con il tramonto della belle époque in Europa, le schermaglie amorose tra Dorimene e il protagonista Monsieur Jourdain. Conlon asseconda il lieve struggimento sul fondale di tutto il lavoro, in continua oscillazione tra il desiderio di un sogno impossibile e il rifugio in un rassicurante edonismo di altissima fattura, illuminando con permeante senso del timbro ogni particolare del variopinto caleidoscopio straussiano. Ne esce un ritratto variegato e mutevole, simile al rincorrersi delle nubi in un cielo primaverile, cesellato con gusto per il chiaroscuro e affettuosa attenzione al fraseggio, premiato dal pubblico con scroscianti applausi al termine della serata.
foto Maria Vernetti