Wang l’adamantina
di Stefano Ceccarelli
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ospita nuovamente un recital della talentuosa e estrosa Yuja Wang, che si destreggia in un programma nutrito, che vede protagonisti i suoi autori di riferimento. Aprono, infatti, preludi e studi di Rachmaninov, seguiti dalla Decima sonata di Skrjabin e da tre studi di Ligeti; nel secondo tempo, l’Ottava sonata di Prokof’ev. Poi, un profluvio di ben otto bis, a chiudere una splendida serata di musica.
ROMA, 28 maggio 2018 – Il pubblico romano è oramai avvezzo ai recital annuali dell’estrosa Yuja Wang, pianista che sta riscuotendo un successo incredibile a livello mondiale perché incarna assai bene il prototipo dell’artista del terzo millennio: bella, estrosa, talentuosa, molto eccentrica, la Wang ha tutte le caratteristiche per incontrare i gusti del pubblico contemporaneo.
Oltre ad avere, naturalmente, il look di un’autentica rock star, la Wang ha anche un incredibile talento pianistico, che si concretizza soprattutto nell’impressionante velocità d’esecuzione coniugata a un’impeccabile pulizia sonora, nel talento di creare atmosfere e rarefazione sonora. Insomma, le sue doti precipue si riassumono nell’abilità di manipolazione tattile del suono e nella velocità con cui riesce a controllare queste atmosfere. Come tutti gli esecutori di grande talento, naturalmente, anche la Wang ha dei limiti: le manca ancora profondità di lettura in qualche passaggio, una sensibilità più attenta ai respiri del pezzo, l’immergersi cerebralmente in un brano, diciamo. In quanto esecutrice certamente intelligente, la Wang sa quali sono i brani che possono esaltare le sue doti: un programma costruito su Rachmaninov, Skrjabin, Prokov’ev e, soprattutto, Ligeti non può, in tal senso, che far risplendere i suoi talenti.
Ma vediamo con ordine. Il primo tempo vede l’esecuzione di un florilegio di preludi e etude-tableaux di Sergej Rachmaninov. Naturalmente, non può mancare il celebre Preludio in sol minore op. 23 n. 5, dove la Wang ingrana bene il ritmo e l’incessante, muscolare marcia, quasi una serie di martellate, che cangiano però di colori, su una melodia che si scolpisce indelebile nella mente, di cui l’interprete, pur in notevole abbrivio, non lesina di cogliere qualche sfumatura. Nel prosieguo dei pezzi, pur mancando forse qualche sfumatura, qualche attenzione qua e là, regala in ogni caso una bella esecuzione, soprattutto della Etude-tableau in do minore op. 33 n. 3, per il notevole gioco tattile, ma anche in quella op. 33 n. 6 in mi bemolle minore, veramente stupenda nel suo incessante zampillare e guizzare di note, che svelano il talento principe – come dicevo – della Wang. Gli altri pezzi rachmaninoviani sono stati le Etude-tableaux op. 39, n. 1, n. 4 e n. 5 e il Preludio in si minore op. 32 n. 10. Il pubblico applaude praticamente a ogni pezzo, già conquistato e ammaliato dalla Wang, che passa subito alla sublime Sonata per pianoforte n. 10 op. 70 di Aleksandr Skrjabin, un pezzo singolarissimo. La Wang legge con tatto non solo la pasta sonora che cresce atmosfericamente in una perpetua climax, ma anche gli interventi dei trilli, fitti come il frinire degli insetti che qui il compositore immaginava: questa visione panica si concludeva in un tripudio di luce, a conclusione della climax abilmente preparata dal russo. Qui la Wang predilige un’attenzione spasmodica alla pulizia del suono (i trilli sono impeccabili): ma non ha i respiri di altri grandi interpreti, soprattutto del passato, cui dovrebbe guardare per migliorare la lettura interpretativa della partitura. Il primo tempo si conclude con una perfetta esecuzione di tre Etudes di György Ligeti, su impervie difficoltà della tastiera, ai limiti dell’assurdo: in Touches bloquées la Wang è perfetta nella geometrica precisione del movimento dei tasti e nella tenuta ritmica; in Vertige emerge il suo talento atmosferico, nelle opposte scale che si incontrano sulla tastiera; in Désordre l’interprete spumeggia di un virtuosismo estremo.
Il secondo tempo è occupato interamente dalla Sonata per pianoforte n. 8 in si bemolle maggiore op. 84 di Sergej Prokof’ev. La Wang è nelle sue acque: trapassa con brillantezza dai colori lievemente opachi dell’Andante dolce verso le energiche dinamiche dell’Allegro moderato, gioca tutto a fil di suono nel bell’Andante sognando e conclude con vigore e geometrico virtuosismo nell’ultimo movimento. Gli applausi invadono la sala, pur non molto gremita. Allora la Wang, che certo non si è risparmiata, regala la vera e propria terza parte del concerto: una sfilza di otto bis. Già il primo, uno dei Lieder ohne Worte di Mendelssohn (op. 67, n. 2), dimostra alcuni suoi limiti in un repertorio che non sia propriamente il suo: mancano infatti quei giochi impercettibili di respiri che fanno, in alcuni passaggi, la differenza (mi viene in mente, di contro, l’esecuzione di Perahia). Poi ritorna nelle sue acque con Ligeti: l’Etude n. 8, riprendendo l’I-Pad con cui aveva letto lo spartito in precedenza (cosa inconsueta per un pianista), e subito dopo il n. 10 (del II libro), Der Zauberlehrling, che ha nelle zampillanti difficoltà di percussione la sua precipua difficoltà. Il quarto bis è più celebre: sono le Variazioni su un tema dalla Carmen del famoso Vladimir Horowitz; poi si torna a Prokof’ev, con l’arrangiamento per pianoforte della Marcia e scherzo dall’Amore delle tre melarance. Gli applausi continuano a piovere da ogni dove, così la Wang regala ancora un bis: il sesto, il raro Sostenuto iniziale da Natalon in E dell’olandese Simeon ten Holt. Ma, contro ogni previsione, non è ancora finita: la Wang regala la riduzione per pianoforte della Danse des petits cignes da Il lago dei cigni di Čajkovskij e della seconda delle Danze degli spiriti beati dall’Orfeo ed Euridice di Gluck. Fra un tripudio di applausi si chiude un concerto dove la Wange, certamente, ha dato tutta sé stessa.