Là Genova torreggia
di Antonino Trotta
Strepitoso successo al Teatro Carlo Felice di Genova per la ripresa del Simon Boccanegra nell’allestimento firmato da Andrea De Rosa: quasi un’ora di applausi per uno spettacolo magnifico in cui spiccano le prove maiuscole di Ludovic Tézier e Francesco Meli.
Genova, 17 Febbraio 2018 – Lungo la costa si scrivono le sorti della Repubblica e la cerula Marina rimane lì, immobile, a vegliare sui figli con sguardo materno, ad accarezzare il cielo con le sue onde sinuose, a illuminarsi sotto i raggi del sole e della luna, a scrutare e lasciarsi scrutare mentre il profumo della salsedine sembra già diffondersi nel teatro. Non poteva esserci cornice migliore per questo Simon Boccanegra, l’opera che parla di Genova, al Carlo Felice di Genova, con un protagonista genovese, fiore all’occhiello di una compagnia invero di altissimo livello, accolta con vibrante trepidazione da una platea che avvolge bramosa il palcoscenico come i flutti che lambiscono la terra per rubarne anche solo un granello di sabbia. Ma il mare non è solo il leitmotiv dello splendido spettacolo (nelle cui acque è stato recentemente battezzato il Teatro Galli di Rimini), è il sottofondo di una partitura di sublime bellezza, è lo specchio in cui si riflettono passioni, è il bacino in cui Verdi, ancora una volta, auspica l’unità per l’amata patria.
L’allestimento firmato da Andrea De Rosa è ormai noto alla maggioranza del pubblico italiano: messinscena lineare, che nei bei costumi di Alessandro Lai, nelle suggestive scenografie fedeli agli stilemi architettonici locali (curate dallo stesso De Rosa) e nel magnifico gioco videoproiezioni e luci di Pasquale Mari trova la propria raison d'être. Lineare, si diceva, ma con dei colpi di coda. Paolo è un personaggio più torvo e oscuro delle profondità degli abissi e quando, alla fine del prologo, si staglia davanti alla salma di Maria, portata in piazza da Simone, per celarne con il mantello la vista al popolo che acclamava il nuovo doge, sì riesce a palpare l’imperturbabilità dell’uomo nei suoi disegni biechi e manipolatori. Di Boccanegra invece Verdi e Piave esaltano le virtù, tra cui la salomonica saggezza: il doge sa chi ha rapito Amelia e l’estro punitivo dell’automaledizione nasce dal desiderio di celare alle masse il nome del rapitore, dunque vedere plebei e patrizi che accerchiano Paolo nel finale del primo atto vanifica un po’ il coup de théâtre. Infine, qualcuno avrà notato il fantasma di Maria Fiesco che si aggira per il palazzo quando i vivi la invocano o Boccanegra si addormenta sotto l’effetto del veleno ma, da buon fantasma, è assolutamente trasparente alla drammaturgia teatrale (ad eccezione, forse, della comica scena finale, dove lo spettro deve aprirsi un varco tra i coristi per raggiungere il doge), intonsa nella sua essenza.
A fare da faro nel golfo mistico c’è Andriy Yurkevych, giovane bacchetta ucraina che dirige con grande professionalità i complessi dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice. Yurkevych non racconta vicende ma espone stati d’animo: l’estasi amorosa, la rivalità politica, l’impeto bellicoso hanno la giusta valorizzazione nel ricco vocabolario agogico e nella varietà di cromie impressa all’orchestra. La relazione con il palcoscenico è serena anche quando i tempi si dilatano oltre l’ordinario (ma gli interpreti lo permettono) e concede agli artisti ampio respiro. Tuttavia Boccanegra è come una conchiglia, quando si avvicina l’orecchio si vuole sentire il mare, e a mancare, in taluni passaggi, è proprio la fluidità dell’elemento acquatico (nel preludio del secondo atto e nella cavatina di Amelia, al di là di qualche attacco esitante dei fiati, così come nell’accavallarsi dei marosi nella tempestosa aria di Gabriele «Sento avvampar nell'anima»). Sottigliezze, queste, che per nulla ledono il valore della buonissima concertazione.
Ma veniamo al versante vocale, vero punto di forza di quest’emozionante serata. Come non innamorarsi di Ludovic Tézier, presenza maiuscola sul palcoscenico del Carlo Felice. Soffermarsi solo sulla beltà del timbro, sull’omogeneità della voce ovunque timbrata, voluminosa, duttile, plastica, sull’emissione morbida e controllata priva di venature muscolari o sui fiati interminabili significherebbe cogliere a metà il pregio di una prova che invece raggiunge il massimo compimento nella nobiltà dell’interpretazione. Il Boccanegra di Tézier non è un santo, è prima di tutto un uomo, intelligente e riflessivo, e la “scena del consiglio”, sospesa tra il fuoco dello sguardo e la compostezza del gesto, mette in luce proprio quest’eccezionale capacità attoriale. La straordinaria raffinatezza del fraseggio, in cui scolpisce la parola scenica come il mare fa con gli scogli, rivela poi una miriade di sfaccettature psicologiche del personaggio: la purezza dell’amore padre/figlia, il desiderio di pace, l’ardente anelito di unità, quasi Boccanegra fosse un compendio della poetica verdiana.
Non è da meno il Gabriele Adorno di Francesco Meli, in forma smagliante. Il tenore genovese, da buon padrone di casa, eccelle per la generosità delle inflessioni espressive con cui modella un ruolo a lui congeniale. Fiero, ardimentoso, eppure in grado di sciogliersi in sfumature liquide nelle parentesi di abbandono cavalleresco, Meli, nella scena del secondo atto, incarna tutta l’impetuosità del mare: travolgente nell’aria, delicato e serafico nella cabaletta, si impone per la lucentezza del timbro, squillante in acuti solidissimi, etereo nelle mezze voci (meravigliose le smorzature nel secondo duetto con Amelia), e per il fraseggio vivido, elegante, carico di emotività.
Vittoria Yeo gestisce nel migliore dei modi lo strumento sontuoso: nell’aria di cavata – «Come in quest'ora bruna» – la prospettiva di tante filature rallenta forse la partenza, ma già nella scena successiva il soprano coreano sfoggia una musicalità rotonda e un canto appassionato che, unito alla buona padronanza tecnica, consente focose impennate quando la tensione s’accende e il dramma si fa più concitato.
Giorgio Giuseppini sa cogliere in Jacopo Fiesco non l’antagonista, ma il riflesso di Boccanegra in una pozza intorbidita dalla rivalità: maestoso in una linea di canto granitica, possente nelle note gravi, per l’accoratezza degli accenti nell’aria «Il lacerato spirito» Giuseppini regala a Fiesco la stessa intensità del rapporto Boccanegra-Amelia, nonostante l’esclamazione «T’inoltri e stringi gelida salma» possa dare l’idea distorta di una impenetrabile freddezza.
Leon Kim, interessante per colore e volume, regge bene il ruolo di Paolo, ma si percepisce qualche sforatura d’intonazione (soprattutto nelle scena iniziale). Validi Luciano Leoni e Alla Gorobchencko, rispettivamente Pietro e l’ancella di Amelia. Se si esclude infine l’orribile e pasticciato bisbiglio del finale del primo atto, può considerarsi positiva la prova del Coro del Teatro Carlo Felice istruito dal maestro Francesco Aliberti.
Inutile provare a descrivere la piena dell’entusiasmo e delle ovazioni conclusive. A voler quantificare il successo di questa stupenda ripresa si fa presto: orologio al polso e previsioni di durata alla mano, quasi un’ora di applausi, tra chiamate alla ribalta ed esplosioni a scena aperta, ritarda l’uscita dal teatro. Genova non è mai stata così bella.
foto Marcello Orselli