L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

A Stoccolma come a Boston

 di Luigi Raso

Nella prova generale di Un ballo in maschera al San Carlo si apprezza in particolare l'approccio sensibile e signorile di Celso Albelo al personaggio di Riccardo (qui Gustavo) nell'allestimento godibile, seppur privo di particolari guizzi, ideato da Leo Muscato per Malmö e Roma e ambientato nella Svezia del 1792.

NAPOLI, 21 febbraio 2019 (prova generale) - “C’era una volta un Re…”. È il più classico degli incipit delle favole ad aprire questa produzione di Un ballo in maschera, già andata in scena nel 2016 all’Opera di Malmö e all'Opera di Roma [leggi la recensione]. Un allestimento, tanto fedele alla drammaturgia di Giuseppe Verdi e del librettista Antonio Somma, che ambienta l’opera nella Svezia del 1792, proprio quella di Gustavo III, in luogo della Boston del XVII secolo, come imposto, dopo tante modifiche, dalla censura papale a Verdi. Già, la censura. Quella borbonica era inorridita davanti a un regicidio in scena, e per giunta durante una festa in maschera. Del resto, nel gennaio del 1858, negli stessi giorni in cui Verdi sbarcò a Napoli per mettere in scena al San Carlo Gustavo III - questo il titolo originario dell’opera -, a Parigi Felice Orsini attentò alla vita dell’Imperatore Napoleone III. Verdi non accettò le ipotesi di modifica imposte dalla censura borbonica e propose l’opera a un impresario romano: incredibile dictu, i censori papali si mostrarono più flessibili dei colleghi napoletani e l’opera andò in scena a Roma, ambientata però nelle Boston coloniale, al Teatro Apollo (è stato abbattuto nel 1888: dove sorgeva, sul lungotevere Tor di Nona, oggi c’è una stele in travertino che ne ricorda i fasti) la sera del 17 febbraio 1859. E così il San Carlo perse la prima “dell’unica opera politicamente reazionaria di Verdi” (Massimo Mila), nella quale a giganteggiare moralmente è la figura di un sovrano illuminato, amato dai suoi sudditi, mentre Renato e i congiurati appaiono dei vigliacchi.

Una digressione di pura ucronìa: se Felice Orsini non avesse provato ad uccidere Napoleone III, probabilmente il San Carlo non avrebbe dovuto attendere fino al gennaio del 2004 per assistere a ciò che sarebbe dovuto essere il Gustavo III, ricostruito da Philip Gossett dopo un’accurata indagine musicologica.

La regia di Leo Muscato, ripresa da Alessandra De Angelis, con l’ambientazione svedese ripristina i nomi originari dei protagonisti: Riccardo diventa Gustavo; Renato, invece, Carlo, duca di Ankastrom. 

Sulle note del preludio all’atto I, la scena si apre con il protagonista Gustavo impegnato in un duello (allusivo a quello, nascosto, amoroso) con il migliore amico Carlo/Renato; Amelia e il figlio raggiungono Renato. La famiglia si ricompone e Gustavo si defila afflitto. Il “triangolo” amoroso, seppur platonico, è già evidente e Un ballo in maschera diventa subito quel “vertiginoso poema tragico d’un amore impossibile e disperato” (Massimo Mila).

Le scenografie e l’ambientazione, di Federica Parolini, sono in perfetto stile settecentesco: interni austeri e regali, valorizzati e resi ancor più plastici dal suggestivo gioco di ombre e luci ideate da Alessandro Verazzi e riprese da Marco Alba. L’ “orrido campo” del secondo atto è spoglio, adorno di pochi tronchi d’albero, sovrastato da un cielo livido: l’unica presenza vitale è l’amore tra Gustavo e Amelia. Ad evocare un ‘700 immerso in una gaudente atmosfera carnevalesca ci sono i bellissimi costumi di Silvia Aymonino, i cui colori fantasmagorici sembrano strizzare l’occhio a quegli accesi del Goya del Parasole del Prado; sono tenebrosi e plumbei, come l’intera scena, quelli che dominano la scena dell’antro d’Ulrica, e che ricordano le Pitture nere, sempre del grande artista spagnolo: un mondo dominato dall’irrazionalità, nel quale una novella Sibilla emette sentenze di morte. E per il ballo conclusivo un tripudio di maschere, in bianco e nero, degne di una festa carnevalesca in un portego sul Canal Grande, e altre danzanti, vestite di colori accesi.

La trama registica si muove all’interno di spazi scenici limitati: il coro è spettatore quasi immobile della vicenda; ai danzatori, nel ballo conclusivo, è concessa una maggiore mobilità. L’opera si chiude con la riapparizione beffarda di Ulrica: come a voler dire: “Tutto è andato come vi avevo predetto!”.

Una messinscena godibile, bella da vedere, seppur priva di originali guizzi registici.

Sul versante musicale Donato Renzetti assicura una concertazione improntata a una generale correttezza e uniformità nell’accompagnamento delle voci, con momenti di intensa passionalità (Preludio all’Atto II). L’orchestra ha un suono rotondo, ben definito; le linee contrappuntistiche iniziali sono sbalzate a sufficienza, ma si avverte poco quel contrasto - che è cifra stilistica e miracolo dell’opera - tra dramma e sorriso, quel sottile e ambiguo mescolarsi tra commedia e tragedia: non si respira immediatamente quell’aura di ilarità che irrompe nel dramma. Maggiore fantasia nel fraseggio e più passionalità nel “suggerimento” orchestrale alla ritrosa confessione d’amore di Amelia nel climax del magnifico duetto del secondo atto avrebbe potuto emozionare maggiormente: l’entrata dei violoncelli che sussurrano ciò che Amelia è restia a confessare a se stessa ("Ebben... sì... t’amo!") e a Gustavo avrebbe meritato maggiore attenzione e risalto. La concertazione scorre comunque sicura, l’equilibrio tra orchestra e palco, salvo rare eccezioni, è sempre ben calibrato. Il minuetto finale, meccanica e inquietante danza di morte proveniente dal palcoscenico, è in primo piano sonoro.

Eccellente la prova del coro, guidato da Gea Garatti Ansini: suoni corposi e perfettamente amalgamati nel contesto musicale, preciso nelle entrate; il crescendo dell’invocazione al “dio pietoso”, nel finale, è emozionante.

Prima di affrontare l’aspetto vocale, è necessario premettere, per dovere di cronaca e per obiettività, che la presente recensione si riferisce a una prova generale aperta al pubblico: gli artisti, pertanto, legittimamente potrebbero aver cantato con risparmio di energie vocali in vista del loro debutto.

Celso Albelo è un Gustavo (Riccardo) convincente, benché la parte possa apparire a tratti ardua per la sua vocalità. Il suo Gustavo è cantato con estrema signorilità, caratterizzato dal bel timbro e dal fraseggio sempre ben curato, con acuti luminosi e rotondi; l’interpretazione rende bene l’ossessione amorosa della quale è preda il sovrano. Si avverte, soprattutto nel duetto d’amore, però la tendenza a cercare maggiore risonanza vocale, a “spingere” leggermente. La barcarola "Di’ tu se fedele" e l’aria "Forse la soglia attinse... Ma se m'è forza perderti" sono molto ben cantate, con fraseggio e colori vocali articolati. "È scherzo od è follia" è reso con la dovuta leggerezza, eleganza e sarcasmo.

Carlo (Renato) è Seung-Gi Jung, baritono dalla voce molto timbrata, ampia, ricca di armonici, omogenea nell’intera tessitura, ma poco articolata nell’interpretazione: le note della parte ci sono tutte, l’anima del personaggio, purtroppo, latita.

Eccessivamente stridula nel registro acuto è l’Amelia di Susanna Branchini: di voce, corposa e dal timbro brunito, ne ha da vendere, ma la linea di canto appare troppo frastagliata e taluni suoni sono eccessivamente aspri. Il temperamento non manca: è un’Amelia scenicamente e vocalmente appassionata, innamorata e tormentata.

L’Ulrica di Anastasia Boldyreva  è vocalmente anemica, poco incisiva, ma corretta nella linea di canto. L’invocazione "Re dell'abisso, affrettati" è poco perentoria, priva di invasamento per essere credibile. Nel registro basso la voce è eccessivamente indietro e tende a sfocarsi.

Oscar, quel meraviglioso refolo di levità e sorriso che il genio teatrale e musicale di Verdi invia in scena quando sul dramma si addensano le nubi più cupe, ha la voce di Marina Monzò: è un paggio pieno di verve, vitalità, grazia scenica e vocale. La difficile scrittura vocale, al netto di qualche acuto un po’ troppo fisso, è affrontata e risolta con sicurezza e senso dello stile appropriato e raffinato.

Completano il cast il Conte Ribbing (Tom) di Cristian Saitta e l’Horn (Sam) di Laurence Meikle, bravi a far emergere la meschinità dei congiurati.

Bene le parti secondarie del marinaio Cristiano (Silvano) di Nicola Ebau, del Giudice di Gianluca Sorrentino e del servo di Amelia di Lorenzo Izzo.

Il pubblico della prova generale, non particolarmente numeroso come il titolo avrebbe meritato, al termine dimostra di gradire applaudendo tutti.

Una nota di colore e…colorata: le mascherine di sala che accolgono il pubblico vestono eleganti costumi carnevaleschi, ricchi di cromie. Un richiamo a quelle presenti in scena e al periodo carnevalesco.


 

 

 
 
 

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