Mozart nei Lumi
di Francesco Lora
Per il carnevale, il cartellone della Fenice è stato impreziosito da due ricercati nuovi allestimenti mozartiani: Il sogno di Scipione e Il re pastore, su libretti di Metastasio. Acute le regìe di Barbalich e Pizzech, valido il canto di voci all’italiana, specialistica la direzione di Sardelli
VENEZIA, 16-17 gennaio 2019 – Metastasio è la persona di poesia e teatro che nel Settecento riunì ogni angolo dell’Europa sotto i propri versi, educando l’uomo a una grammatica della dignità morale e civile oltre che a una dogmatica dell’obbedienza religiosa. Mozart musicò per la prima volta i suoi libretti all’età nella quale già componeva Mitridate, Lucio Silla e Ascanio in Alba per Milano: era adolescente ma era già Mozart, e l’occasione arrivò nel Sogno di Scipione e nel Re pastore, fatti serenate per festeggiamenti nella corte arcivescovile di Salisburgo. Ritrovò poi Metastasio soltanto nella sua ultima opera, La clemenza di Tito, quella che a ogni ascolto – complice, appunto, Metastasio – fa chiedere perché mai il capolavoro assoluto debba essere Don Giovanni o Die Zauberflöte.
Al Teatro La Fenice, detto questo, sanno il fatto loro. Propinano a ogni stagione decine di recite della Traviata, nell’immortale spettacolo di Robert Carsen; e fanno benissimo: teatro pieno e cuore gonfio. Qualcuno la crede routine, e magari poi non si accorge che il carnevale veneziano è stato impreziosito da due ricercati nuovi allestimenti mozartiani: da una parte cinque recite (8-16 febbraio) nella sala del Malibran, dall’altra altrettante cinque (15-27 del mese) nella sala della Fenice; i titoli, quelli metastasiani e giovanili detti poco sopra: Il sogno di Scipione e Il re pastore, che anche il melomane incallito avrà fatto fatica a incrociare in precedenza o non avrà incrociato mai. Ci ha pensato la Fenice.
Funziona, nella sussidiaria sala del Malibran (che un giorno sarebbe bello poter tornare a chiamare Teatro di S. Giovanni Grisostomo: tre secoli fa fu il centro dell’opera nel mondo), funziona, lì, si diceva, la lettura teatrale che la regista Elena Barbalich e i giovani drammaturghi, scenografi e costumisti della locale Accademia di Belle Arti danno intorno al Sogno di Scipione: tengono in movimento un’azione di fine parola, senza mai caricarla di ipertrofia mitteleuropea, e la sdrammatizzano qui e là con gesto leggero; danno luogo a uno spettacolo complesso nonostante le molte voci nel lavoro di squadra e la poca cassa loro concessa per provvedere a tutto.
Gioventù anche nella compagnia di canto. Rimane alla memoria Valentino Buzza nella parte eponima: possiede una di quelle voci tenorili le quali misteriosamente coniugano un’emissione un tantino ingolata e un timbro latino, radioso, comunicativo. Soprattutto, ecco un tenore che canta Mozart e non fa strame della prosodia italiana, come pure Emanuele D’Aguanno nella parte di Publio e Luca Cervoni in quella di Emilio. L’italiana Francesca Boncompagni come Costanza, la slovena Bernarda Bobro come Fortuna e la giapponese Rui Hoshina nella Licenza – tre soprani – si uniformano invece in una fredda compunzione germanica; ma domano anche arie di diabolico virtuosismo.
Commuove senza meno, nella sala della Fenice, Il re pastore attraverso la regìa di Alessio Pizzech: il quale mette in opera un turbine di idee teatrali ma con esse lavora sempre dentro il testo; il quale si trova un soprano gravido e anziché protestarlo gli cuce addosso un personaggio d’oro; il quale allo scenografo Davide Amadei e alla costumista Carla Ricotti chiede di non limitarsi a essere arredatore e figurinista: nell’atto I si vede un deserto con un unico albero verdeggiante, luogo (o non-luogo) dell’isolata ma serena vita pastorale di Aminta, e nell’atto II si vede un giardino foglioso con un unico albero stecchito, luogo (o non-luogo) dell’animo pastorale spento nella gabbia d’oro; e l’allegoria già dice tutto.
Il pancione è quello di Silvia Frigato, in una Tamiri che lì mostra l’abbandono di Agenore e dappertutto una tenera, matura, tenace sottigliezza espressiva. Le fa da contraltare l’Elisa di Elisabeth Breuer, con l’attonito progresso psicologico dalla spensieratezza all’inattesa ombra di un trono. Su tutte domina – è l’eponimo personaggio en travesti a procurarglielo, a priori – Roberta Mameli quale Aminta: presenza spigliata e cordiale, linea di canto tanto spontanea quanto raffinata, intonazione da sorvegliare in vista del debutto come Vitellia della Clemenza di Tito. Tenori: il morbido Francisco Fernández-Rueda, come Agenore, la vince sull’Alessandro di Juan Francisco Gatell, a mal partito con l’agilità di forza.
Direttore dell’uno e dell’altro lavoro, ecco Federico Maria Sardelli. Fa meraviglie di nettezza di gesto melodico, di esegesi di luoghi ritmici e timbrici, di scrostamento di vezzi salisburghesi. Sa leggere distintamente nelle partiture il codice univoco dell’Età dei Lumi, lasciando ad altri l’invenzione dettata da cuore libero e modesta erudizione. Fa anche felice il filologo che scrive, con recitativi qui al clavicembalo, là al fortepiano, sempre però scortati dal violoncello che altri crede facoltativo. È suo il più informativo Mozart che si ascolti oggi in Italia, e dall’Italia in altra buona parte del mondo: in marzo lo attende La clemenza di Tito a Firenze, con la Mameli. Peggio per chi non ci andrà.