Il valore in trionfo
di Antonino Trotta
A cinque anni dalla scomparsa di Claudio Abbado, fautore della Rossini Renaissance nel tempio milanese, il Teatro Alla Scala ripropone lo storico allestimento di La Cenerentola firmato da Jean-Pierre Ponnelle. Nel cast si impongono le prove di Carlos Chausson, Nicola Alaimo e Maxim Mironov.
Milano, 23 Febbraio 2019 – Nel fascino di uno spettacolo non si nasconde mai la fonte dell’eterna giovinezza: il pubblico si rinnova, il gusto e la sensibilità della percezione si evolvono e la bellezza, avventata definizione per un corredo emozionale ben più articolato, vive inevitabilmente nel confronto con il presente. Ci sono allestimenti, tuttavia, che il passato consegna ogni volta in forma smagliante, freschi e vividi nelle immagini pur segnate dal trascorrere degli anni. Di questi lavori la storia non esalta l’estetica, quanto il valore, ossia la capacità di cogliere l’essenza del creato operistico per restituirne appieno una materializzazione con cui l’opera stessa, spesso, finisce con l’identificarsi. Alla Scala di Milano, dal 1973, La Cenerentola significa solo ed esclusivamente Jean-Pierre Ponnelle e se, dopo quasi mezzo secolo, la messinscena nata per il Maggio Musicale Fiorentino nel 1971 riesce ancora a suggestionare platee tanto esigenti, il merito è dell’efficacia con cui la grammatica teatrale racconta questo inestimabile Rossini. Non servirebbe scriverne: dinnanzi al giudizio del tempo, la critica ha ben poco da postillare. Nel linguaggio narrativo di Ponnelle, oggi ereditato da Grischa Asagaroff, il garbato senso della misura assicura sempre l’armonioso connubio tra il romanticismo della fiaba e il brio del divertissement. La raffinata verve comica non scade nel grottesco, il sincero lirismo non si fa mai svenevole o sospiroso e ogni carattere, seppur affidato alle cure dei singoli artisti, conserva un’autentica fisionomia. Le litografiche scenografie, ben valorizzate dalle luci di Marco Filibeck, e i meravigliosi costumi sono quindi il punto di arrivo di un percorso che parte dalla partitura e in essa trae tutta la sua ispirazione.
Ispirazione che sembra instradare anche Ottavio Dantone, alla guida degli ottimi complessi dell’Orchestra del Teatro Alla Scala, verso una lettura di pari eleganza. Grazie alla bacchetta del direttore pugliese, il dettato rossiniano brilla con sonorità luminose e la preziosa scrittura è enfatizzata all’inverosimile in ogni ricamo strumentale, soprattutto dei fiati, ben evidenti in ogni fase dell’esecuzione. Dantone non si ferma all’aspetto più epiteliale del capolavoro rossiniano, approfondisce il dettaglio, chiede drammaticità all’orchestra e così l’espressività del fraseggio, vistosamente elegiaco in alcuni passaggi, sembra spesso voler assecondare la poetica della pièce larmoyante, dilatando di conseguenza il tessuto ritmico, soprattutto nelle arie e nei recitativi, dove talvolta si avverte l’influenza della forma mentis barocca.
Nell’organico organico vocale di gran prestigio sono le parti maschili a dominare. Carlos Chausson, a valle di una nutrita esperienza buffa, è il vero mattatore della serata. Il Don Magnifico di Chausson sa sottrarsi al cliché del farsesco: nella sua ingenua alterigia il Barone di Monte Fiascone non digrigna i denti e sfoggia un’esuberanza che migra tutta nella linea di canto corposa, potente e istrionica. Scenicamente arguto, vocalmente completo, Chausson canta con schiettezza e inventiva d’accenti, forte di uno strumento ancora solido e gestito benissimo, come confermato nei vorticosi sillabati del secondo atto. Al pari di Chausson e forse superiore sul piano musicale, il Dandini di Nicola Alaimo è un irresistibile compendio di teatralità e belcanto: il senso della parola, articolata con una miriade di sfumature e inflessioni, è la chiave d’accesso a una poetica squisita dove la grande solerzia tecnica incontra la frizzante intelligenza interpretativa. Ecco allora che l’ottima gestione del fiato, la fluidità delle agilità nel sestetto o nella cavatina e l’emissione morbida, sempre piegata secondo le esigenze della contingenza attoriale, trovano la massima compiutezza in una prova che può considerarsi di riferimento. Repertorio d’elezione anche per Maxim Mironov che di Ramiro galvanizza l’estasi e l’impeto amoroso. Allure lunare, timbro madreperlaceo e delicato, fraseggio sensibile e aristocratico, con un’avvincente dose di pirotecnico virtuosismo, l’alta classe del tenore russo nobilita la caratura del principe di Salerno con un canto sopraffino in cui il personaggio guadagna il più esaustivo ritratto. Alidoro di lusso quello di Erwin Schrott, a cui purtroppo però il ruolo non rende la dovuta giustizia: la vocalità scultorea, sontuosa nella messa di voce all’inizio del cantabile dell’aria, ben incarna l’affettuosa maestosità del deus ex machina ma la tenuta della coloratura, nella scena privata della ripresa della stretta, è piuttosto faticosa.
Nonostante le indiscutibili qualità e la sicurezza delle agilità, a causa di una palpabili disomogenità nei registri, tra acuti spesso queruli e affondi di petto fin troppo consistenti, convince poco Marianne Crebassa. L’interprete, tuttavia, è spigliata e declina la sua Angelina sorridendo alle altre eroine, più smaliziate, del gineceo rossiniano, equilibrando dunque con sapienza abbandono languido e fierezza d’accenti. Composta la Tisbe di Anna-Doris Capitelli mentre la tessitura di Clorinda costringe Tsisana Giorgadze, esplosiva in scena, a emissioni disordinate. Buona, ma perfettibile, la prova del Coro de Teatro Alla Scala, istruito dal maestro Bruno Casoni.
foto Brescia Amisano