L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le luci del Verismo

 di Andrea R. G. Pedrotti

Torna sulle scene della Wiener Staatsoper lo splendido allestimento del dittico verista per antonomasia firmato da Jean-Pierre Ponnelle. Di grande rilievo la compagnia di canto, con Elina Garanca e Marina Rebeka primedonne, George Petean come Tonio e Fabio Sartori nei panni di Canio.

Vienna 11 marzo 2019 - In una Wiener Staatsoper gremita in ogni ordine di posto, torna, dopo diversi anni di assenza, il dittico composto da Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo. Per l’occasione il teatro nazionale viennese si è affidato a una compagnia di canto ai massimi livelli mondiali. Tutti gli interpreti debuttavano nei rispettivi ruoli, perlomeno nel contesto della Wiener Staatsoper.

Durante la serata, fra le più belle sorprese, abbiamo avuto la gioia di ritrovare la bellissima regia di Jean-Pierre Ponnelle (autore anche di scene e costumi), purtroppo conosciuto in Italia quasi esclusivamente per il repertorio brillante rossiniano.

In Cavalleria rusticana Ponnelle descrive una Sicilia pietrosa, simile a Matera, con l’esaltazione di tutti gli equilibri relazionali che caratterizzavano il sud del bel Paese, certamente fino a non molti anni fa. Nel preludio, le luci e i minuti movimenti dei protagonisti seguono meticolosamente la partitura di Mascagni e le parole del libretto. Santuzza osserva dalla strada una finestra, la casa di Alfio e Lola, dove Turiddu sta portando a termine il consesso carnale con la donna maritata, prima di scappare da una finestra. La peccatrice non è Lola per la pubblica opinione, sebbene visivamente colpevole di adulterio, ma Santuzza e il preludio si conclude con tutte le donne del borgo a puntare il dito simmetricamente verso la povera Santa, creando un fuoco prospettico su di lei, accentuato da un gioco di luci. Dal poggiolo della sua abitazione ritroviamo anche Lola, ancora in sottoveste e con i capelli scombinati, a puntare il dito accusatore.

Molto interessante la caratterizzazione psicologica di Alfio e Turiddu: il primo diviene un uomo compassato, moderato nei toni, ma lucidamente deciso nelle azioni, al contrario Turiddu è un debosciato, che appare commosso per l’amore di Santuzza, tanto da baciarla in fronte nel loro struggente duetto, ma cede di continuo al vizio della carne e dell’eros. Nel brindisi conclusivo si accosta fastidiosamente a Lola, che lo allontana con un certo sdegno, completamente ebro e alla ricerca di altro vino da tracannare.

Splendide le luci sugli ultimi accordi, che accentuano, con una penombra simulata, l’imbrunire e la conclusione della tragedia.

La compagnia di canto era guidata da una splendida Elina Garanča, pulita nell’emissione, passionale negli accenti e coinvolgente nel fraseggio. La sua Santuzza, elegante e raffinata al tempo stesso, rappresenta perfettamente il personaggio dell’opera come un effimero trofeo del vizio di Turiddu, che sembra nutrire tenerezza verso il suo amore, conquistato e posseduto per la sua bellezza, senza tener conto della delicatezza dell’anima. Convince meno il Turiddu di Yonghoon Lee, dotato di voce particolarmente potente, ma troppo grezza nell’emissione come nel fraseggio. La dizione è assai incerta e la recitazione meccanica e poco naturale. Bene Paolo Rumetz, che impersona un Alfio meno aggressivo del consueto e maggiormente affine alla figura di un pater familias, intento a difendere l’onore suo e della consorte innanzi al borgo e al focolare domestico. Buona anche la prova vocale, affrontata con sicurezza.

Completavano il cast l’affascinante Lola di Svetlina Stoyanova e la severa mamma Lucia di Zoryana Kushpler.

Cast completamente rinnovano per Pagliacci, mentre resta la regia di Jean-Pierre Ponnelle. L’impianto cromatico è molto simile e potrebbe, idealmente, trattarsi del medesimo paese che ha ospitato l’opera precedente. Resta una santella sulla sinistra e la foggia dei costumi è stilisticamente la stessa che abbiamo visto poc’anzi. La compagnia di Canio giunge su un furgone che funge da scena fissa. Di tradizione, quella migliore, la prima parte dell’opera, mentre il capolavoro di Ponnelle si manifesta nel finale, quando, durante l’intermezzo, viene allestito il palco per lo spettacolo dei teatranti itineranti. È la cura della mimica più minuta, oltre, ancora una volta, al gioco di luci, a colpire maggiormente, con Nedda a chiamare l’attenzione di Tonio e Beppe, per non restar sola in scena con Canio, avendo scorto con chiarezza che la fiamma nel guardo del consorte non aveva speranza di spegnersi, se non con la sua dipartita.

Di certo la contezza di Nedda dell’imminente omicidio ai suoi danni sta già nel libretto e in molte produzioni di Pagliacci, ma quello che rende ancor più interessante la regia di Ponnelle sono i dettagli: non un colore è casuale, non il minimo movimento della mano, non il più lieve passo. Ancora una volta l’apoteosi della tragedia, come già accaduto pochi giorni fa per Il lago dei cigni, si fa catarsi e purificazione, consentendo al pubblico tutto di uscire appagato.

Passiamo ora al lato musicale. Migliore assoluto è il Tonio di George Petean, che guadagna ovazione dalla sala, già dopo un Prologo eseguito con precisione e fraseggio raffinato. I registri sono gestiti con emissione doviziosa senza mai perdere d’omogeneità nello squillo degli acuti. Scenicamente Petean si conferma attore carismatico ed efficace.

In crescendo il Canio di Fabio Sartori, intenso in “Vesti la giubba” quanto inesorabile nel confronto con la moglie fedifraga. Ottimo il suo finale, quando rende al meglio la drammaticità del contesto, sia nella recitazione, sia nella crudezza degli accenti con voce squillante, sicura e ben proiettata.

Marina Rebeka interpreta Nedda con gran gusto e capacità attoriali eccellenti: canta benissimo e coglie appieno la psicologia del personaggio. Sotto l’aspetto strettamente vocale si fa preferire nello sfogo acuto, mentre soffre leggermente la pesantezza della scrittura nei centri e, soprattutto, nei gravi di una parte, comunque, sovente affidata a soprani lirici d'origine belcantista com’è la Rebeka. Nel complesso la sua prova risulta pienamente soddisfacente.

Spigliato scenicamente e preciso musicalmente il Beppe di Jörg Schneider. Igor Onishchenko, Silvio, giunge all’ultimo per un’indisposizione del baritono titolare, tenendo il palcoscenico con onore e disciplina.

Wataru Sano era il primo contadino, mentre Martin Müller il secondo.

Grame Jenkins, alla guida dei complessi della Wiener Staatsoper, offre una prova interlocutoria in Cavalleria rusticana, con delle dinamiche interessanti, ma un’agogica meno intensa e vibrante. Talvolta fatica a contenere le celeberrime sonorità dell’orchestra viennese, perdendo il contatto col palcoscenico. In principio soffoca il coro fuori scena e mette a rischio alcuni attacchi e chiuse, tuttavia eseguiti correttamente da un complesso che, ancora una volta, dimostra di aver un’unica anima e una coesione fuori dal comune.

Molto meglio in Pagliacci, durante i quali l’equilibrio fra buca e palcoscenico appare assai più corretto. Come al solito, straordinaria la gamma di sfumature dinamiche dell’Orchestra della Wiener Staatsoper, che si manifesta in un sublime pianissimo iniziale fino a un entusiasmante fortissimo negli ultimi accordi dell’opera.

Il coro, diretto da Thomas Lang, si fa preferire, in Pagliacci, dove risulta pienamente convincente in tutti i suoi interventi. In Cavalleria rusticana, oltre alle mende del concertatore, sarebbe stato preferibile un colore vocale leggermente più scuro; tuttavia questo non ha assolutamente minato la buona riuscita dell’intero dittico.

Tutte le maestranze erano quelle stabili della Wiener Staatsoper.

foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn

foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn


 

 

 
 
 

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