Dal mito all'uomo
di Luigi Raso
Juraj Valčuha offre una splendida lettura dell'opera wagneriana, coniugando la cura del dettaglio a una coerente visione d'insieme per definire un dramma umano in perfetta sintonia con la visione scenica dell collaudato allestimento di Tiezzi, Paolini e Buzzi.
NAPOLI, 16 maggio 2019 - Tra le opere che compongono Der Ring des Nibelungen, l’unica, avulsa dalla saga nibelungica, a mantenere una propria compiuta autonomia è Die Walküre: in essa c’è il passato del Rheingold e vi è chiaramente preannunciato das Ende temuto e bramato da Wotan, che prenderà corpo e fuoco nella conclusiva Götterdämmerung.
Nel mezzo, incastonato tra la rinuncia all’amore del nibelungo Alberich e l’incendio del Walhalla, un dramma familiare, azionato dai compromessi spregiudicati e moralmente riprovevoli del capo famiglia Wotan, il padre del dèi.
Ed è proprio la decadenza e la rovina di una famiglia borghese di metà ottocento - ne sarà chiara l’evocazione in quel capolavoro letterario che è I Buddenbrook di Thomas Mann - a fare da filo conduttore dello spettacolo firmato da Federico Tiezzi (ripreso per l’occasione da Francesco Torrigiani), già apprezzato al San Carlo nel 2005 e vincitore l’anno successivo di ben due premi Abbiati, per le scenografie di Giulio Paolini e i costumi di Giovanna Buzzi. Agli inizi degli anni 2000, l’allora sovrintendente Gioacchino Lanza Tomasi perseguì tenacemente il progetto di affidare a vari artisti (Valerio Adami, Mimmo Paladino, Arnaldo Pomodoro, David Hockney e Giulio Paolini) la cura dell’aspetto visivo di Der fliegende Holländer, Tancredi, Capriccio, Turandot e, appunto, di Die Walküre: ne nacquero - li ricordo tutti bene - tra gli spettacoli più belli della storia recente del San Carlo.
Questa produzione ha tra i suoi vari punti di forza e di interesse proprio l’aspetto scenografico: a far da sfondo al dramma è una fusione perfettamente armonica tra architettura e scultura di rara e intensa suggestione; la scena è dominata da un’atmosfera astratta, atemporale, dall’eleganza minimalista di grande gusto che incornicia il dramma di uomini e donne, umani, fin troppo umani, lontani dalla propria natura di semidei e dall’aura mistica che regna nella rocca del Walhalla.
Giulio Paolini, da artista concettuale, idea un impianto dominato da una gabbia cubica che racchiude il frassino/focolare, grossi macigni vulcanici, cornici con all’interno brandelli di sculture classiche e, infine, lo spoglio catafalco sul quale Wotan adagia l’amata figlia Brünnhilde. I fondali dai colori tenui amplificano il senso di atemporalità e, quindi, di contemporaneità, evidenziando la fisicità degli elementi scenografici e scultorei; l’astratto e lontano mondo degli dèi, invece, è evocato dal proscenio con pianeti e satelliti, enigmatici testimoni del dramma. Il contrasto tra luci e ombre di Gianni Pollini, poi, conferisce dinamismo e plasticità: l’incantesimo del fuoco finale illumina di rosso l’intera scena e il grande arco scenico, amplificando l’effetto catartico della scena finale.
Nella dominante astratta atemporalità dello spettacolo i costumi - eleganti e dai colori perfettamente abbinati con quelli delle scenografie - di Giovanna Buzzi sono riconducibili alla moda ottocentesca, ma non rinunciano all’incursione del mondo mitico e originario della storia.
Due grandi tavoli, Attorno a due grandi tavoli, evocazione di un interno alto borghese, le tensioni e le recriminazioni della famiglia allargata di Wotan si esacerbano e prendono forma. In simbiosi con la scenografia procede la regia di Federico Tiezzi: imperniata su movimenti essenziali e asciutti, si focalizza sugli sguardi - e nella drammaturgia wagneriana hanno tanta importanza!- gli abbracci tra i personaggi, dilata le distanze tra gli stessi, indagandone le tensioni, gli affetti e il senso di incomunicabilità. E, quando Siegmund, nel primo atto, racconta a Sieglinde e Hunding la propria triste storia, una famiglia di fine ottocento lo ascolta sedendo con discrezione nel fondo destro della scena, come fosse un dramma teatrale; terminato il lungo racconto e capovolta una sedia, fuggiranno fuori scena.
A distanza di quattordici anni dal debutto, l’allestimento firmato da Tiezzi-Paolini-Buzzi mantiene ancora intatta quella raffinata sofisticata eleganza che lo ha reso uno tra i più interessanti visti al San Carlo nell’ultimo ventennio.
Motivo di estremo interesse di questa produzione è la direzione di Juraj Valčuha, il quale, in occasione del suo debutto wagneriano al San Carlo, appronta una concertazione così analitica e meditata tale da reggere il confronto con quella, indimenticabile, di Jeffrey Tate che tenne a battesimo lo spettacolo nel 2005.
A dominare è un soffuso intimismo, in linea con il dramma familiare sulla scena; dall’orchestra, in ottima forma, promanano pedali musicali di velluto, sonorità dai colori pastello, tarsie d’incastri strumentali: ben curati gli innesti dei legni sugli archi all’interno del medesimo disegno melodico. Merita un plauso il primo violoncello per il meraviglioso assolo del “tema dei Velsunghi” del primo atto. Qualche imperfezione degli ottoni e qualche eccesso dei timpani nell’introduzione del secondo atto non inficiano minimamente una prova orchestrale che costituisce un’ulteriore conferma dell’affidabilità e duttilità della compagine sancarliano.
Valčuha, pur attento ai particolari della partitura, non rinuncia proporre una visione d’insieme coerente, riconoscibile, di grande impatto: la sua è una lettura musicale “smitizzata”, disperatamente umana. Così, il finale, complice anche l’ottima prova del Wotan di Egils Silins, è di quelli che trasmettono emozioni; solenne e dall’andamento ieratico è, parimenti, la scena dell’annuncio di morte di Brünnhilde a Siegmund.
In definitiva, quella di Valčuha risulta una prova di grande professionalità e maturità, che induce a sperare di poter ascoltare altri titoli di Wagner al San Carlo.
Molto ben assortita la compagnia di canto, che schiera il Siegmund esperto di Robert Dean Smith, specialista del repertorio wagneriano con all'attivo più presenze sulle tavole del mitico teatro di Bayreuth: voce da heldentenor, è in grado di far risuonare per un tempo estremamente prolungato il "Wälse! Wälse!", così come di sfumare nel duetto conclusivo del primo atto. Il suo è un Siegmund lacerato, nostalgico e dolente, dalla spiccata personalità musicale e coinvolgente anche dal punto di vista scenico.
Liang Li è un Hunding torvo, dalla voce potente e ben proiettata, convincente per qualità e rotondità del timbro, nonché perfettamente aderente alla parte del ruvido marito di Sieglinde, interpretata da Manuela Uhl, la quale, con voce corposa e luminosa, omogenea nella gamma, squillante negli acuti, delinea una Sieglinde appassionata e innamorata.
Il Wotan di Egils Silins è una sintesi di intelligenza e raffinatezza musicale e voce dal timbro corposo e dal colore suggestivo: il monologo del secondo atto, la confessione di Wotan a Brünnhilde, è reso cesellando ogni singola frase con fraseggio variegato, rendendo plastica la lacerazione psicologica di Wotan. Un monologo che è la chiave di volta e spartiacque dell’intero Ring: il baritono lettone e il perfetto accompagnamento/suggerimento orchestrale, con il flusso di richiami tematici, lo tramutano in una seduta psicanalitica ante litteram. Nel finale, poi, il suo Abschied è intenso, cantato con rassegnazione e signorilità, estremamente coinvolgente nella sezione centrale di “Der Augen leuchtendes Paar, das oft ich lächelnd gekost…” ("I due occhi luminosi che spesso sorridendo ho carezzato..."). Un artista d’alta classe, notevole anche per le doti sceniche.
Irene Theorin, nella non agevole parte di Brünnhilde, esordisce ("Hojotoho! Hojotoho!") con qualche acuto estremamente stiracchiato e non centrato, tuttavia migliora nel prosieguo: voce corposa, dal notevole volume, risulta a volte stridula in alto, ma convincente per interpretazione musicale e presenza scenica.
Pur nella brevità della parte, sfoggia voce dal timbro caldo e emessa correttamente Ekaterina Gubanova, la quale delinea una Fricka offesa e petulante, manipolatrice e finemente determinata.
Ben assortite le valchirie di Raffaela Lintl (Gerhild), Robyn Allegra Parton(Helmvige), Pia-Marie Nilsson (Ortlinde), Ursula Hesse von den Steinen (Waltraute), Alexandra Ionis (Rossweisse), Ivonne Fuchs (Seigrune), Niina Keitel (Grimgerde), Julia Gertseva (Schwertleite).
A conclusione di ogni atto gli interpreti raccolgono calorosi e convinti applausi; al termine dello spettacolo l’apprezzamento del pubblico - numeroso se rapportato alla complessità e durata dell’opera - si manifesta con fragorosi applausi per i cantanti e soprattutto per il direttore Juraj Valčuha.