L’opera del Re Sole
di Francesco Lora
Al Grand Théâtre di Ginevra, Médée di Charpentier va in scena nel sensazionale allestimento firmato da David McVicar (malgrado l’indecente taglio dell’intero prologo). Attendibile nello stile e fragrante nell’esposizione la lettura musicale di Leonardo García Alarcón, mentre Anna Caterina Antonacci fa strame di ogni concorrenza nella parte protagonistica
GINEVRA, 7 maggio 2019 – Via il dente, per cominciare. Médée di Marc-Antoine Charpentier (Parigi 1693) è il massimo capolavoro nel genere della tragédie lyrique secentesca, insieme con le migliori composizioni teatrali di Jean-Baptiste Lully. Di queste essa conferma l’impianto peculiare: un prologo celebrativo seguito da cinque atti, ossia sei scomparti di durata quasi equivalente; ciascun atto è a sua volta suddiviso in due metà, la prima mirata al processo dell’azione mediante dialoghi, la seconda basata su cori e danze (è il cosiddetto divertissement). Il prologo di Médée, offerto al Re Sole, è una meraviglia delle meraviglie; ma i registi contemporanei non sanno come gestirlo dal punto di vista teatrale e, un allestimento dopo l’altro, pretendono che sia tagliato di netto. La Svizzera ha fornito tre cattivi esempi in cinque anni: prologo tagliato sia nel 2015 al Theater di Basilea per la regìa di Nicolas Brieger, sia nel 2017 all’Opernhaus di Zurigo per quella di Andreas Homoki, sia quest’anno al Grand Théâtre di Ginevra per quella di David McVicar. Il problema è non solo il negato ascolto di venti minuti di musica superba e l’offesa arrecata alla struttura idiomatica di una tragédie lyrique – che effetto farebbe una sinfonia beethoveniana mutilata dello Scherzo? – ma anche e soprattutto la vanificazione delle proporzioni della partitura, con la sua studiata alternanza di episodi grosso modo drammatici e ricreativi. In parole povere, con un esempio: senza la carica data dal sontuoso prologo, la prima metà dell’atto I suona stanca e noiosa, danneggiando la complicità dello spettatore.
Circa le sei recite ginevrine avvenute dal 30 aprile all’11 maggio, va però detto che il taglio del prologo è stato ereditato: lo scomparto mancava già all’English National Opera nel 2013, quando lì fu creato questo allestimento con regìa del già menzionato McVicar, scene e costumi di Bunny Christie, luci di Paule Constable e coreografie di Lynne Page. Difficile, dunque, ovviare a una menda ormai calcificata. Va poi ammesso che, tolta la menda, l’allestimento in questione è un miracolo di arte teatrale, come soltanto in Inghilterra, con quella tipica e maniacale cura della ricerca gestuale e della scenotecnica, potrebbe essere stato messo a punto. È virtuosismo della più alta specie la rappresentazione di uno squallido contesto militaristico, con l’inevitabile ambientazione del mito nella contemporaneità storica, attraverso architetture colte ad angolatura imprevedibile, fra tagli di luce che vanno a svegliare corruschi l’oro e il vetro: le coreografie sbalordiscono, a loro volta, per la loro complessità tecnica, per l’ironia in esse sottesa, per il rispetto tuttavia del testo, nonché per la loro naturale integrazione in uno spettacolo dove, dalla protagonista al comprimario e dal danzatore al membro del coro, tutti sono puntigliosamente formati a una specifica attorialità. Le buone notizie, da Londra a Ginevra, si moltiplicano: là Médée era stata presentata in un’improbabile traduzione inglese e senza alcuna specifica attenzione filologica; qui non solo l’opera ritrova l’ovvio originale francese del suo libretto, ma anche una lettura musicale di inattesa attendibilità stilistica e fragranza espositiva.
Si allude al concertatore Leonardo García Alarcón, un musicista che, dietro la falsa credenziale del filologo, non si fa di solito scrupoli a manomettere le partiture antiche e i loro significati indiscutibili, tagliando, spostando, aggiungendo, trasponendo e strumentando, con esiti retorici, agogici e timbrici di dubbio gusto esotizzante, estranei alla ricerca del fondato storico. Bene: nella sua Médée si ascolta invece una direzione dal passo mobile ed elegante, che esclude i cali di tensione drammatica senza per questo fare appello a soluzioni improprie; si ascolta un’orchestra, la Cappella Mediterranea, imbibita di timbri profumati, risonante oltre l’atteso da strumenti originali, tanto morbida in archi e legni quanto rimbombante in trombe e timpani; si ascolta infine il coro ginevrino convertito ai modi barocchi in barba all’abituale frequentazione del grande repertorio otto-novecentesco. Nella compagnia di canto v’è il sospirato esordio di Anna Caterina Antonacci come protagonista di una tragédie lyrique secentesca: la sua Médée fa strame di ogni concorrenza per estetizzazione della parola, superiore pregio del materiale timbrico e dominio sfrontato dello spazio scenico; con questo precedente, guai al teatro che non si affretti a chiederle il debutto nell’Armide di Lully. Avvezzo a questo repertorio, ma viepiù affaticato dall’alta tessitura di haute-contre, è Cyril Auvity come Jason; poco sciolto nel francese, ma regalmente carismatico, il Créon di Willard White; incantevole nella presenza e forbita nel canto la Créuse di Keri Fuge, quanto spavaldo e timbrato è l’Oronte di Charles Rice.
Foto © GTG / Magali Dougados