Grammatica della fantasia
di Roberta Pedrotti
Grigory Sokolov fa tappa al Bologna Festival con un recital dedicato a Beethoven e Brahms in cui impone ancora una volta la sua profonda intelligenza e la sua straordinaria sensibilità poetica.
BOLOGNA, 2 maggio 2019 - Opus 119 di Beethoven, Opus 119 di Brahms: settant'anni quasi ne separano la pubblicazione, mentre la coincidenza li unisce come raccolte di pezzi brevi e caratteristici, formalmente liberi ed eterogenei, qui Bagatelle, là Klavierstücke. Nulla è mai a caso nei programmi proposti da Grigory Sokolov, nulla semplicemente antologico o cronologico per il pianista russo, che cerca sempre una ragione poetica nel percorso che intraprende con i suoi recital. Anche in questo caso, non delude. Luci calde e basse, suona nella penombra, come nel bagliore domestico di uno studiolo dove non esistono palco e pubblico, ma lui, noi, la musica. Suona quasi senza soluzione di continuità, tutto a memoria, interiorizzando una linea che dal do maggiore della Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven al do maggiore del terzo Klavierstück op. 119 di Brahms (Intermezzo grazioso e giocoso) e al successivo epilogo con l'impennata dell'unico pezzo detto Rapsodia, il quarto in mi bemolle maggiore. A far da ponte, l'op. 119 di Beethoven e la 118 di Brahms, altre bagatelle, altri pezzi sciolti.
Sokolov tende l'arco fin dalla forma definita, classica della Sonata beethoveniana, da quella dedica ad Haydn che pare un punto di partenza e infatti subito si eleva al di là del puro e semplice rigore formale: la scansione dei quattro movimenti, i rapporti tonali, tematici, ritmici, la stessa struttura musicale diventa struttura di pensiero. Le esposizioni, i contrasti, le transizioni, le modulazioni, le riprese, gli sviluppi costituiscono una raffinata arte logica e retorica che il pianista russo padroneggia in tutte le sue pieghe. La forma è sostanza, è senso, è, dunque, poesia, e nel suo rigore intrinseco arriva a sorprendere, perché la lettura di Sokolov va così a fondo da permettersi un'estrema libertà – ma mai arbitrarietà – di fraseggio. Così, tutta in un sorso, la sonata scorre evidenziando non quattro blocchi, ma un unico flusso di pensiero, con punti di riferimento ben precisi, e significativi, in uno spettro amplissimo di variabili espressive anche repentine. Ciò, peraltro, non significa mai che Sokolov trascenda i limiti dello strumento: al contrario, ne esalta l'idiomaticità. Non abbiamo mai un momento in cui una suggestione timbrica o dinamica ecceda dalla più pura essenza pianistica. È pianoforte all'ennesima potenza, che non cessa mai d'essere tale: il pensiero poetico non sublima la meccanica, la fisicità dell'oggetto, ma si concretizza in esso senza, tuttavia, appesantirsi in materia. Il suono resta fatto fisico di corde, feltri, martelletti, viene plasmato da un uso ammaliante quanto accorto del pedale, la fisicità delle vibrazioni nell'aria, al pari del canto e della poesia, resta la materia di cui son fatti i sogni. Sogni, o incubi, se Sokolov trilla argentino, sottile e leggero come se dieci dita si trasformassero in migliaia di farfalle, o se, viceversa, lascia fluire improvvisa un'eco spettrale dell'abisso. Incanta e perturba, sempre muovendosi all'interno delle strutture della sonata, da cui si aprono squarci che trovano continuità nei frammenti delle Bagatelle prima, dei Klavierstücke poi.
Quella che in Sokolov seduce come una straordinaria, inesauribile invenzione di fraseggio, trae la sua forza proprio dal suo essere anche una formidabile riflessione sul linguaggio musicale. Anzi, non c'è sfumatura, in quel suo colorire rubare e trasformare, che non sia diretta espressione di questo dialogo nella forma, della forma. Il rigore della Sonata dedicata ad Haydn diventa una grammatica della fantasia, espande tutto il suo potenziale e si esprime anche là dove la struttura non è codificata così strettamente. La Sonata si fa chiave di lettura per Bagatelle, per Intermezzi, Ballate, Romanze, Rapsodie. Beethoven e Brahms parlano la stessa lingua, anche se ciascuno la usa per scrivere la sua propria poesia, e questo Sokolov lo intende e lo fa intendere a meraviglia, in quel suo gioco di rigore e stupore in cui la continuità di pensiero va di pari passo con la vivida cura del dettaglio, a sottolineare distanze, filiazioni, parallelismi.
Come sempre lo si ascolta con il fiato sospeso, rapiti proprio dal cogliere il rapporto segreto fra quel virtuosismo – in senso lato – e quell'impeccabile sistema logico e retorico. Retorico, si badi bene, in senso letterale di arte del dire, non nell'accezione deteriore di compiaciuto e fumoso artifizio, ché Sokolov è tutt'altro: immaginifico quanto concreto.
Gli applausi esplodono, ma lui non si scompone, non interrompe la sua simbiosi con il pianoforte – tale che per trasmissione d'energia elettrostatica anche la sua chioma bianca alla fine innalza ciocche al cielo – e sciorina con disarmante naturalezza sei bis. Ecco lo Schubert estremo del secondo Impromptus op. 142 D 935 e quello dell'Ungarische Melodie D 817, ad arricchire, con uno spirito abilmente stemperato in un cantabile mai lezioso, il quadro del programma ufficiale. Allo stesso modo, un ulteriore Brahms, il secondo Intermezzo dall'op. 117, ribadisce la tornitura formidabile dell'articolazione musicale dell'Amburghese. Il Rameau di Le rappel del oiseaux non solo riaccende la sorprendente moltiplicazione di rapidissime falangi nel sessantanovenne Sokolov, ma gli permette di giocare con intelligenza sorniona fra l'identità pianistica e l'origine cembalistica del pezzo. L'ultima eco del linguaggio romantico, viceversa, ci arriva da un Rachmaninov, dodicesimo Preludio op. 32, ombreggiato da illuminanti presagi, per poi chiudere con i soffusi Pas sur la neige dal primo libro dei Préludes di Debussy: quel pedale che lascia vibrare in profondità accordi spettrali da solo potrebbe valere la serata. Siamo partiti con una dedica ad Haydn, l'ultimo bis si spegne in un suono puro e solo in cui si potrebbe rapprendere tutta una visione del Novecento.