Storia senza tempo
di Antonino Trotta
In occasione del venticinquesimo anniversario dalla fondazione dell’Associazione Lingotto Musica i Berliner Philharmoniker, guidati da Daniel Harding, ritornano a Torino con un concerto memorabile.
Torino, 2 Maggio 2019 – È una foto in bianco e nero, sull’impaginato di sala, la copertina di una fiaba, «industriale», che parla di intuizioni e idee, incontri, sussurra i nomi di prestigio tutto italiano, accende la memoria e inorgoglisce chi, questa storia, l’ha scritta e vista scrivere. E come in quell’istantanea, scattata venticinque anni fa per proteggere il ricordo del battesimo, l’auditorium “Giovanni Agnelli” del Lingotto è pieno fino all’orlo: sul palcoscenico i Berliner Philharmoniker e sul podio Claudio Abbado, che questa sala da concerti l’ha voluta al punto da curarne, insieme a Renzo Piano e l’ing. Helmut Müller, l’acustica. Ecco allora che il ritorno dei Berliner, guidati da Daniel Harding, non celebra solo il quarto di secolo, ma ribadisce in maiuscolo l’autorevolezza dell’ente, punto di ritrovo subalpino per le orchestre e i direttori più blasonato, e celebra il Maestro italiano di cui il ciliegio a copertura delle pareti costudisce geloso, ancora oggi, il segreto di una musicalità inarrivabile.
Si fa perciò presto a scrivere di una serata, ça va sans dire, semplicemente indimenticabile. Difficile trovare le parole per rendere giustizia al sublime colore dei Berliner, alla nobiltà degli impasti timbrici, alla magnifica commistione tra le sezioni e al velluto sonoro che maestoso avvolge la sala per quasi un’ora e mezza. La tecnica, poi, è qualcosa di eccezionale: le doppie forcelle in un singolo battito o l’ineccepibile sincronismo nei pizzicati degli archi, ad esempio, rimangono dettagli in cui è possibile misurare la statura, titanica, dei complessi tedeschi.
Il Karfreitagszauber dal Parsifal di Wagner (L’incantesimo del Venerdì Santo) apre il concerto tra atmosfere aurorali e mistiche: qui Harding contempla incantato la natura, procede mesto in una trama ritmica elastica, inebria i primi bagliori dell’alba senza trascurare l’eco del crepuscolo, metafora delle forze del male sopraffatte dalla luce della redenzione. Così i leitmotiv si intrecciano soavi in un tessuto melodico sospeso a mezz’aria dagli archi, fautori di un sostrato sonoro flessuoso ed evanescente in cui i fiati, straordinari negli ingressi, illuminano la partitura con i raggi del sole nascente. Certo, non si coglierà qui tutta l’essenza del Parsifal, troppo sfaccettato per essere riassunto dal solo interludio, ma la lettura di Harding esalta appieno l’intensità della scrittura wagneriana.
Sfoggia lineamenti assai simili l’introduzione della Scène d’amour da Roméo et Juliette di Berlioz, che l’autore stesso considerava il proprio capolavoro. L’adagio di ingresso rende in un istante la magia della notte serena, poi l’incalzante racconto musicale presta la voce alle passioni degli innamorati per antonomasia. Del dialogo strumentale Harding intercetta tutta la dirompente carica narrativa: la pulsione amorosa, inizialmente timida e commossa, di Romeo nel canto di viole e violoncelli che esplode poi nella sublime dichiarazione d’amore, la concitazione della protesta di Giulietta affidata ai brevi motivi dei legni, la frenesia delle sezioni sincopate, l’angoscia nei momenti di silenzio. E di queste rutilanti peregrinazioni emotive l’orchestra, quanto mai plastica, si fa canale di immediata attuazione.
La qualità pittorica e atmosferica dei Berliner trova quindi negli affreschi di Debussy, che chiude la prima parte con il Prélude à l’après-midi d’un faune e apre la seconda con una selezione di brani estratti dalla suite da Pelléas et Mélisande,la massima espressione. Più del Prélude, dove l’individualità del timbro e del cesello sul frammento onora i singoli musicisti, la certosina calibrazione delle dinamiche, ampissime, nelle scene dell’unica opera lirica di Debussy intensifica il carattere delle immagini, anzi delle impressioni, che si giustappongono scaturendo l’una dall’altra. Gli squarci lirici si fanno lancinanti e l’orchestra erompe in bolle sonore di struggente portata prima di dissolversi in un etereo pianissimo.
Grandiosa la fanfare che si staglia durante la tempesta dell’interludio sinfonico da Les Troyens di Berlioz, Chasse royale et orage, tra i momenti più eccitanti dell’intera serata. Il virtuosismo degli strumentisti è adesso sotto gli occhi di tutti: le insidiose volate degli archi, violente in un taglio ritmico che non concede respiro, risuonano all’unisono senza l’ombra di una sbavatura, difendendo la purezza di quel suono dorato già apprezzato nelle varie impennate melodiche. In conclusione torna Wagner con una meravigliosa esecuzione del preludio e della “morte d’amore” di Isotta. Nel cuore di una concertazione tersa, diremmo moderna, Harding flette il fraseggio in un susseguirsi di indugi, sospensioni e concessioni costruite nella prospettiva nell’episodio successivo. L’esecuzione si muove lungo il solco di un crescendo non solo sonoro, ma drammatico, che accentua l’estasi del sacrificio d’amore, ora tiene il pubblico a debita distanza, lasciandogli contemplare da lontano lo spettacolo della beatitudine, ora lo trascina per elevarlo a uno stadio di esaltato rapimento.
Si conclude così, il concerto, in una dimensione dove il tempo sembra essersi fermato. Il pensiero vola ad Abbado, ad Agnelli, a tutti coloro che hanno animato e animeranno in futuro questo luogo. Negli occhi del direttore artistico Francesca Gentile Camerana, elegantissima tra le prime file, custode e genitrice premurosa della rassegna, tanta soddisfazione: arde ancora vivo il sacro fuoco dell’arte. Perché un anniversario è una tappa, non un traguardo, di un viaggio che ci auguriamo possa continuare a scrivere la storia del concertismo torinese senza mai mostrare i segni del tempo.