L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Passeggiando tra i maestri del colore

 di Alberto Ponti

Alla sua ultima apparizione della stagione 2018/2019 alla testa dell'Orchestra Sinfonica Nazionale James Conlon propone un programma tutto incardinato su composizioni ispirate a opere pittoriche

TORINO, 17 maggio 2019 - Chi ha avuto la sorte di nascere, e vivere almeno un po', nel periodo precedente la grande rivoluzione digitale si ricorderà ancora il piacere della scoperta di musiche poco eseguite e conosciute destinato spesso ad accompagnarsi a una sensazione di conquista, giunta improvvisa frugando tra dischi fuori commercio oppure annunciata da un programma concertistico intrigante, sul quale, non avendo quasi mai uno spartito o una registrazione sotto mano, si lavorava soprattutto d'immaginazione prima dell'evento. E poco importa che all'ascolto della rarità seguisse la rivelazione di uno  κτῆμα ἐς αἰεί  (ktema es aiei possesso perenne) di tucididiana memoria o piuttosto un bruciante disincanto figlio di aspettative lasciate troppo libere di correre. La bellezza consisteva anche nell'attesa. La possibilità di avere ora a portata di clic quasi tutto ciò che è stato inciso ed eseguito negli ultimi decenni, oltre a una formidabile valanga di partiture fino a vent'anni fa introvabili all'atto pratico, se da un lato ha ampliato di molto, con innegabile beneficio, la coscienza del nostro orizzonte dall'altro ha rimescolato il modo di porsi nei confronti di composizioni 'vergini' al nostro orecchio, provocando talora un calo di attenzione nel convincimento che, nel mare magnum della rete, nulla sia più perduto per sempre e quindi replicabile in ogni momento.

Poi arrivano serate come quella del 16 e 17 maggio all'auditorium Rai, in cui il corto circuito del mondo eternamente connesso rimane per un'ora e mezza confinato al di fuori della sala di Mollino, in un altrove che pare lontanissimo, restituendo la gioia quasi fisica e l'emozione del vedere la musica compiersi dal vivo davanti a noi, in un atto interpretativo che, al pari di quello creativo, rimane invece unico e irripetibile, sia per pezzi tante volte già amati (Tableaux d'une exposition di Musorgksij-Ravel) sia per pagine inesplorate e capaci di rinnovare la felicità degli antichi ritrovamenti. E' questo il caso della stupefacente suite in tre movimenti Gli affreschi di Piero della Francesca (1955) di Bohuslav Martinů (1890-1959), a sua volta nata dalle suggestioni provate dall'autore alla vista delle pitture aretine dell'artista rinascimentale.

James Conlon, reduce dal successo del Macbeth viennese, sale per l'ultima volta della stagione sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale e regala al pubblico, appassionato ed entusiasta a scapito del freddo e della pioggia battente, un'apparizione davvero memorabile. Egli, con la consueta attenzione nel presentare anche un repertorio desueto ma non minore dei primi decenni del Novecento, dimostra di conoscere a fondo questa partitura di raffinato cosmopolitismo espressivo. L'arte di orchestratore di Martinů raggiunge qui il culmine attraverso una scrittura elegante ed espansiva, cangiante nei timbri ed articolata nel ritmo, ma nutrita allo stesso tempo di un fascino melodico turgido e seducente. Il direttore americano riesce ad accendere i bagliori di un'opera che, sotto le apparenze di una facile comunicativa, nasconde un impressionante lavoro di scavo nelle sonorità acquistando, oltre l'intenzione descrittiva del titolo, un'autonomia nel discorso di livello superiore.

E una percezione di luce traspare pure dall'iniziale Trittico botticelliano (1927) di Ottorino Respighi (1879-1936), concertato con mano sicura nel rendere i giochi di cesellatura di un piccolo organico (sei fiati singoli, archi, gli inserti argentini di triangolo, campanelli, celesta, pianoforte e arpa). Conlon ottiene un virtuosismo sfavillante e mai gratuito, che prende a pretesto i tre quadri di Botticelli per evocare, con la precisione e la nettezza di ogni singolo dettaglio musicale, il sapore di una classicità perfetta e compiuta, dalle garrule trame dei legni ne La primavera, agli abbandoni pastorali carichi di mistero dell'Adorazione dei Magi per approdare alle fluttuanti oniriche atmosfere de La nascita di Venere.

Lo strepitoso utilizzo dello strumentale raveliano dei Tableaux d'une exposition (1922), concepiti in origine da Modest Musorgskij (1839-1881) per solo pianoforte nel 1874, non può che rappresentare la sublimazione di uno stile in grado di coniugare la cura del particolare con la resa rapinosa della varietà degli stati d'animo suscitati nella celeberrima passeggiata del compositore tra i dipinti dell'amico Viktor Hartmann. La ciclica Promenade si srotola così in una tempesta di scaglie dorate, che diverranno addirittura abbaglianti nel finale de La grande porta di Kiev. In mezzo, tra gli altri, non potremo dimenticare facilmente la malinconia pungente del Vecchio castello, con il perfetto mélange dei fiati tutti in grande serata, il calcolatissimo bilanciamento di brani come Tuileries, Balleto dei pulcini nei loro gusci e Limoges che danno l'impressione di avere di fronte un'orchestra di cento solisti, la profondità, nell'occasione avvolgente come non mai, dell'esordio di Bydlo con uno dei temi più belli di Musorgskij. Un'interpretazione toccante e profonda, mai superficiale, a tratti drammatica a tratti travolgente, ricambiata dall'elettrizzata ovazione con cui la platea saluta il suo direttore principale, aspettandone il ritorno in autunno per l'inaugurazione della stagione 2019/2020 appena presentata.

foto Più Luce


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