Giordano in aspra Russia
di Francesco Lora
Il direttore Gianandrea Noseda debutta finalmente nell’agognata Siberia, ed è subito capolavoro di concertazione al Maggio Musicale Fiorentino. Compagnia di canto dominata dal soprano Sonya Yoncheva e, più che dal relativo tenore, dal baritono George Petean.
FIRENZE, 7 luglio 2021 – Andrea Chénier o Fedora? Nessuna delle due, a dispetto del successo che sempre ha accompagnato tali opere dall’ultimo Ottocento a oggi. Per Umberto Giordano, il compositore, il lavoro del cuore fu invece Siberia: la fece battezzare al Teatro alla Scala nel 1903, la vide trionfare all’Opéra di Parigi e dirigere da Arturo Toscanini, continuò a perfezionarla fino al rifacimento definitivo dato anch’esso a Milano nel 1927. Un soggetto originale, di Luigi Illica, e alla moda, ispirato ai romanzi russi di Tolstoj, Dostoevskij e Turgenev. Un soggetto assai più aspro, però, di quello di Fedora, e vicino piuttosto a quello della coeva Risurrezione di Alfano: si svolge per tre quarti dentro i campi di lavori forzati ai confini del mondo, insegue le passioni dei disperati che anelano al riscatto morale e alla libertà fisica, scioglie quasi le romanze e i duetti entro i quadri d’assieme affollati di caratteristi. È il tipo d’opera dove si cercano le sottigliezze della strumentazione – compreso il colore locale di un’orchestrina di balalaiche – e dove il divismo canoro non ha modo di bucare la coerenza dell’atmosfera. È il tipo d’opera che, appunto, entusiasmò Giordano, ma che finì per sparire quasi del tutto dai favori del pubblico dopo gli anni Venti del Novecento. Col nuovo millennio l’opera è stata riallestita al Festival della Valle d’Itria e ha ripreso a vivacchiare sulle scene; per qualche tempo – angolo del rimpianto – si era addirittura lavorato onde farne un debutto estremo di Mirella Freni; Riccardo Chailly e soprattutto Gianandrea Noseda hanno infine sognato di riproporla alla Scala e al Teatro Regio di Torino.
Progetti falliti, questi ultimi, tra convenienze e inconvenienze teatrali. Ma il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino aveva già dimostrato attenzione a questo sottogenere operistico rispolverando l’anno scorso Risurrezione, e non ha perso l’occasione di arruolare Noseda per quattro recite nella sua maggiore sala, dal 7 al 16 luglio, facendo di Siberia l’ultimo titolo del festival primaverile. Anni passati a studiare con maniacale dedizione questa partitura prediletta, odorante della Russia dove il concertatore in oggetto si è perfezionato: ecco ciò che dà garanzia dell’impressionante lettura, teatrale non meno che musicale, da parte di un Noseda sfogato ai più alti vertici. L’orchestra del MMF, difficile da domare nel suo ribelle splendore di metallico materiale sonoro, si lascia da lui sfumare, plasmare, slanciare e incendiare con matematica esattezza tecnica: ancora più di quanta non ne conceda al suo Zubin Mehta; e il relativo coro assicura pennellate memorabili per calore timbrico o affilatura declamatoria. Peccato, allora, che il nuovo allestimento con regìa di Roberto Andò, scene e luci di Gianni Carluccio, costumi di Nanà Cecchi e video di Luca Scarzella resti a distanza dalla circostante ipermotivazione: la trasposizione temporale al regime staliniano non frutta drammaturgicamente alcunché, come pure il pretestuoso ricorso alla debole e trita idea del teatro nel teatro, mediante una troupe televisiva che fa inspiegabile capolino in scena circa ogni quarto d’ora. Tenere incautamente gli occhi aperti sul pacoscenico non raddoppia, bensì dimezza la travolgente efficacia drammatica delle immagini musicali di Noseda.
Quanto alla compagnia di canto, vi si riscontrano più i pregi e i difetti individuali che un omogeneo dialogo d’assieme, né il concertatore ha sempre il potere magico di ovviare ai vistosi errori di casting commessi da un’altra persona. Sonya Yoncheva, come Stephana, è senza dubbio un’interprete lussuosa, dotata di mezzi vocali eccellenti per vibrante natura e duttilità tecnica; passa qui dal repertorio lirico a un calibro drammatico, e ciò giova a una più moderata e rifinita messa a punto della lettura dello spartito; il suo impegno è evidente, ma anche una certa residua estraneità a questo ruolo debuttato al di fuori di un convinto percorso: vi sarà poi occasione, per lei, di tornare a Siberia senza l’iniziale timidezza? Certo, la Yoncheva è penalizzata dal lavorare in spiazzante solitudine. L’opera è infatti imperniata, alla romantica, sul terzetto di soprano, tenore e baritono: ovviamente due amorosi e il loro antagonista. Ma il tenore è qui un oscuro Giorgi Sturua, ingolato nell’emissione, poco sonoro e mai squillante, invero monotono nel porgere quando la sua concomitante primadonna potrebbe voler dar fuoco alle polveri: l’ufficiale Vassili risulta così un personaggio evanescente, non pervenuto. Tutt’al contrario, George Petean, il baritono del caso, è il cantante che meglio di ogni altro sa partecipare e infervorarsi nell’esigentissimo gioco impostato da Noseda: trae da ogni occasione un proprio capolavoro, e consegna un Gléby d’eccellenza. Adeguato il caratterismo di Giorgio Misseri come Principe Alexis, Francesco Verna come Miskinsky, Emanuele Cordaro come Walinoff e Caterina Piva come Nikona.