Percorso sul madrigale
di Francesco Lora
Il Monteverdi Festival di Cremona presenta lavori maggiori quali L’Orfeo, il Combattimento di Tancredi et Clorinda e il Ballo delle Ingrate, accanto a privilegianti concerti con composizioni di più breve respiro. Sui discorsi teatrali svettano quelli musicali, diretti da Antonio Greco e Francesco Corti, mentre si distingue il canto di Mauro Borgioni, Giuseppina Bridelli, Raffaele Giordani e Roberta Mameli.
CREMONA, 24-25 giugno 2021 – Un resoconto è rimasto nella penna più a lungo del dovuto, ed è quello sul Monteverdi Festival di Cremona, costola d’oro nel programma del Teatro Ponchielli. Nove giorni, dal 18 al 26 giugno, di concerti ed eventi intorno al Divin Claudio, sulla più nobile parte dei quali si coglie la mano di Antonio Greco, direttore musicale principale del Festival e artista di rara sottigliezza intellettuale. Sua è la concertazione dell’Orfeo andato in scena la sera inaugurale e il 24. L’allestimento lo si conosce dall’edizione del 2015, quando gli fu concessa appena una recita: seminuovo, mostra ora un tantinello di polvere nella regìa di Andrea Cigni, nelle scene e nei costumi di Lorenzo Cutùli, nelle luci di Fiammetta Baldiserri e nelle coreografie di Isa Traversi. La diagnosi – sembrerà paradossale – è di eccessiva adesione all’iconografia tradizionale, priva però di quel profilo acuto, erudito e splendido intrinseco alla più rifinita di tutte le opere di corte (1607). L’esatta cifra è invece subito messa a fuoco da Greco, e tanto più con merito per gli obiettivi anche didattici e mai di comodo evidenti nel lavoro di lui. La sua è una lettura scientifica di una partitura scientifica, più rigorosa che fantasiosa e proprio come dev’essere, forte dell’indagine filologica nei trattati dell’epoca e condotta in porto con tanti giovani nell’orchestra e nel coro del festival, germinati dalla più solida esperienza dell’ensemble Cremona Antiqua. La parte di Orfeo è tenuta dall’interlocutore ideale, Mauro Borgioni, caso raro di cantante-stilista maniacalmente devoto alla parola e in tal modo arbitro di affetti, alla maniera di Anna Caterina Antonacci o Romina Basso. Giovanile e spensierata Roberta Mameli come Musica e Proserpina, temperamentosa e incisiva Giuseppina Bridelli come Messaggiera e Speranza, corretta ma esitante l’Euridice di Cristina Fanelli. Tra i signori, Davide Giangregorio affonda nel grave registro di Plutone con maggiore aplomb di quanto non ne vanti Alessandro Ravasio come Caronte, mentre l’Apollo di Luca Cervoni ha la sfortuna di dover duettare con un protagonista troppo perfetto.
Accanto agli spettacoli maggiori, sono un privilegio i brevi concerti, mattutini o pomeridiani, disseminati nelle stupende architetture rinascimentali cremonesi: attraverso di essi è strutturata una sorta di storia del genere del madrigale, nelle sue articolazioni, declinazioni e gradazioni. Dal 21 al 25 giugno, nei Palazzi Grasselli e Fodri e nella Chiesa di S. Omobono, ecco il momento che più strugge e commuove in tutta la rassegna: cinque cantori del coro e di Cremona Antiqua – Cristina Greco, Tea Irene Galli, Alessandro Simonato, Davide Pagliari e Riccardo Dernini – impegnati in una selezione alternata dai memorabili madrigali a cinque voci nel Quarto libro di Monteverdi (1603) e da quelli a due del più anziano Giammatteo Asola (1587). Intonazione immacolata, timbri sanissimi, morbida modulazione, e soprattutto una naturalezza del porgere che scuote più della ricerca di questo o quell’effetto artificioso: proprio così si deve cantare questo repertorio, mai abbastanza dato all’ascolto, e con tanti saluti alla vana concorrenza d’oltralpe. A un Seicento più maturo si riferisce invece il programma presentato, nelle stesse date, tra Palazzo Fodri e S. Omobono, a base di Monteverdi e Giovanni Girolamo Kapsberger: madrigali nell’accezione che li tollera per tali anche quando siano ormai a voce sola anziché polifonici, e stabilmente accompagnati o sostenuti dal basso continuo anziché rimanere campo esclusivo delle voci; vi si ritrova la garbata Fanelli e, accanto a lei, la bronzea Isabella Di Pietro, con la solerte tiorba di Mauro Pinciaroli. Un ulteriore spettacolo maggiore completa il percorso sul madrigale, fino all’atto della dissoluzione di sue chiare regole di genere. Il Libro ottavo di Monteverdi (1638) accoglie com’è noto, tra «madrigali guerrieri et amorosi» che inseguono ogni via della musica vocale profana, anche «alcuni opuscoli in genere rappresentativo». I più corposi sono i preesistenti Ballo delle Ingrate (1608) e Combattimento di Tancredi et Clorinda (1624): giustapposti l’uno all’altro, qui divengono pretesto di un allestimento da discutere, varato al Ponchielli il 19 e 25 giugno e ripreso il 6 e 8 luglio al Teatro Valli di Reggio nell’Emilia.
Un incolmabile divario passa tra la sovrana estrazione culturale delle due partiture – figlie l’una della corte ducale mantovana, l’altra dell’alto patriziato veneziano – e la visione teatrale spaesantemente ingenua che ne dà coram populo il gruppo Anagoor: si assiste, in breve, alla virtù di trasporre testi titanici in contro-testi che li neutralizzano. Il Combattimento di Tancredi et Clorinda diviene qui una sfida tra amici schermidori: quando si arriva allo sconvolgente passo poetico del battesimo, via di salvezza eterna per lei che agonizza e atto di ministero per lui che l’ha ferita a morte, il film proiettato sul fondo traduce genialmente i raggiungimenti retorici tasseschi e monteverdiani in una bottiglietta d’acqua minerale che passa da una mano all’altra. Nel Ballo delle Ingrate l’onnipresente film indugia invece su Margherita di Savoia e sull’immaginaria, statica tragedia delle sue nozze combinate con Francesco Gonzaga (la partitura fu approntata per quell’occasione). Peccato, però, che quel lavoro sia invece maliziosamente intento all’assai più antico, affilato e stimolante tema filosofico dell’«Amor, ch’a nullo amato amar perdona»; e peccato che la Galleria degli Antichi di Sabbioneta, dove il film è stato ambientato, rievochi – rosa da arrossirne – la storia sbagliata: i Gonzaga che la calcavano erano di un ramo differente da quello di Mantova. V’è di peggio: al momento cruciale della danza, lo spettacolo niente ha da presentare di coreografico salvo una nuova, ripetitiva sequenza filmica. Disinibita e brillante, quantomeno, è la lettura musicale di Francesco Corti alla testa dell’ensemble Il Pomo d’Oro, mentre le parti vocali spettano a Raffaele Giordani, come vivido Testo, a Cervoni, come diafano Tancredi, alla Mameli, come insolente Clorinda, a Sonia Tedla, come petulante Amore, alla Bridelli, come energica Venere, e a Giangregorio per il secondo tonante Plutone in due giorni. Stoffa meno timida di quella della Fanelli, però, servirebbe al ‘lamento’ dell’Ingrata: è questa infatti la pur breve pagina che consacrò l’intero Ballo delle Ingrate tra i capolavori, e che motivò il vecchio Monteverdi a stampare una ventina di pagine in funzione di due sole.