L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sostituzione di drammaturgia

di Francesco Lora

Nella Griselda di Scarlatti al Festival della Valle d’Itria, la regìa di Rosetta Cucchi ha rimpiazzato la lezione di Zeno con quella di Boccaccio e ha di fatto sfiduciato il testo, in ciò seguìta dal concertatore George Petrou. Eccellente, nondimeno, la compagnia di canto, in particolare nelle prove di Carmela Remigio, Mariam Battistelli, Miriam Albano, Francesca Ascioti e Krystian Adam.

MARTINA FRANCA, 29 luglio e 1° agosto 2021 – Tesi. Nel Decameron di Giovanni Boccaccio, giornata X, novella 10, circa anno 1350, si raccontano le vicende di Griselda, povera giovane scelta in sposa da Gualtieri, marchese di Saluzzo: i signori del suo dominio lo hanno sollecitato a prender moglie, e il popolo la ama per l’integrità e l’amabilità di costumi; ma Gualtieri vuole persuadersi di aver fatto la cosa giusta, nonché insegnare a Griselda cosa significhi essere moglie – a suo giudizio, s’intende – ed educare il popolo su come una moglie vada trattata; sottopone dunque la sposa ad anni di prove crudeli: le toglie i due figli e dà ordine di ucciderli, la ripudia e la discaccia, le impone di tornare al palazzo come serva, le chiede di esprimersi sulla nuova consorte venuta a sostituirla; ma Griselda resiste a ogni prova con cuore di amante e dignità di marchesa, fino a che Gualtieri, commosso, fa cadere la terribile finzione, riaccoglie venerante la sposa e rivela essere la nuova consorte non altra che la figlia scomparsa e lì tornata col fratello. È un racconto ruvido alla maniera di tante fiabe, dove interessa più dire il cosa fattuale che commentare via via il perché psicologico; basta la morale conclusiva, tutta raccolta in fondo, a spiegare quanto dovuto: «anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria».

Antitesi. In Griselda di Apostolo Zeno, dramma dato per la prima volta a Venezia nel 1701, con musica di Antonio Pollarolo, poi ripreso da decine di altri compositori per un secolo tondo, lo stesso soggetto è ribaltato: sono frattanto passati tre secoli e mezzo di pensiero dell’umanità, né il teatro d’opera funziona come una raccolta di novelle. Gualtieri, re di Sicilia, ha sposato Griselda per amore convinto, ma il popolo non gli perdona che una pastorella sia divenuta regina e madre dell’erede; egli ordisce dunque una dolorosa finzione affinché tutti riconoscano che quella donna venuta dai pascoli vanta una tempra da vera regina: sottopone Griselda alle prove già boccaccesche, ed ella china il capo ad ogni colpo infertole dal marito e sovrano; anzi no, disobbedisce a un solo ordine: quello di convolare a nuove, comode ma inaccettabili nozze con l’orrido Ottone, grande del regno e occulto fomentatore del popolo; Gualtieri sa quale grande donna sia la sua pastorella-regina, sa che ella non cederà e che a cedere sarà invece il popolo: sottopone sé stesso alla tortura di non spiegare in anticipo il piano alla sposa, poiché altrimenti la loro sarebbe, verso il popolo, una truffa indegna di anime regali. Ecco uno dei più perfetti libretti d’opera mai scritti, dove ogni verso spiega al millimetro i meccanismi dell’animo umano: i fatti sono quasi il pretesto sul quale essi si modellano, moltiplicano e avvicendano.

Sintesi. Al Festival della Valle d’Itria, a Martina Franca, nell’atrio del Palazzo Ducale, dal 24 luglio al 1° agosto, sono state allestite tre rare recite di Griselda come andò in scena, giusto trecento anni fa, durante il carnevale a Roma: il libretto di Zeno era stato riadattato da un ignoto e la musica era stata composta, in uno stile ormai vetusto ma di assoluta compiutezza poetica e sconvolgente forza espressiva, da un anziano Alessandro Scarlatti che dava così l’addio al teatro. Nello spettacolo martinese la regìa è stata firmata da Rosetta Cucchi, le scene da Tiziano Santi, i costumi da Claudia Pernigotti e le luci da Pasquale Mari: ma l’esito teatrale è stato un pasticcio da ricordare come monito. È accaduto questo: la drammaturgia del libretto di Zeno è stata disattivata e rimpiazzata con quella, perlopiù di segno opposto, nella novella di Boccaccio; Gualtiero è passato da avveduto e tormentato re di Sicilia, forte della fiducia nella sposa, a squallido mafioso di paese, ossessionato dal giudizio altrui. Sadismo, insicurezza e abnegazione, oltre che la violenza sulla donna, sono infine i temi-chiave, oggi di moda ma estranei al testo, sui quali la Cucchi ha dichiaratamente costruito l’idea: peccato che così l’impegnativo spessore pedagogico del libretto di Zeno scada nel ben più esile, diverso e comodamente maneggevole materiale di Boccaccio, e che anche questo bambino venga poi gettato via per concentrarsi piuttosto sull’acqua sporca.

Il lungo discorso prelude anche alla sostanziale sfiducia che la regista – e con lei il concertatore – nutre verso le sublimi tre ore di teatro e musica nella Griselda di Zeno e Scarlatti. Nell’occasione si è potuto contare su una nuova edizione critica preliminare della partitura, curata dal massimo e più appassionato studioso scarlattiano oggi in attività: Luca Della Libera. L’occasione era dunque anche quella di finalmente illustrare, in ogni suo più riposto angolo, l’enorme capolavoro che a ogni passo trascina e non annoia. Invece no. A Martina Franca è andata in scena una Griselda sforbiciata con ferocia e senza metodo; i recitativi hanno perso non solo il metro, le rime e il ritmo, ma anche il ruolo di chiaro e logico veicolo del dramma; numerose arie sono state stralciate per intero, mutilate all’interno, spostate di posizione o persino direttamente giustapposte l’una all’altra, senza un recitativo intermedio: soluzione tassativamente vietata nel genere operistico, quest’ultima, sia per la sua inefficacia formale e scenica, sia poiché l’orecchio – anche quello non specialista – ne esce disorientato. Al massacro testuale – tale esso è nella coscienza del filologo che scrive – non corrisponde peraltro un vantaggio in altro senso: si allude in particolare al lavoro con gli attori, che funziona in virtù dell’iniziativa personale di questo o quel cantante, o della complicità tra coppie, senza che però si colga a monte una visione unificante.

Da alcune edizioni, il Festival della Valle d’Itria si avvale anche di orchestre storicamente informate per l’esecuzione del repertorio sei-settecentesco. Molto bene: è un atto che avvalora la qualità artistica. Molto male, però, se la partitura da eseguire è quella di Griselda, cioè di un’opera con scrittura tipicamente mutevole e imprevedibile, non virtuosistica ma senz’altro bisognosa di essere studiata a fondo e rettamente compresa; e molto male se l’orchestra è La Lira d’Orfeo, schierata a Martina Franca in un suo organico inusualmente corposo ma sempre flebilmente sulle uova dal punto di vista tecnico: se si vuole eseguire Scarlatti, bisogna farsi passare la paura. Scarso aiuto viene dal concertatore, George Petrou, a sua volta intimidito dal trovarsi innanzi un’orchestra a lui ignota anziché la propria Armonia Atenea: i recitativi sono tirati via come da chi non conosca i valori della prosodia italiana, mentre le arie tendono a suonare tutte con la stessa fiacchezza, talvolta senza che vi siano riconosciuti i metri di danza che dettano la giusta agogica. Pessima, a questo riguardo, la recita del 29 luglio, riscattata da una benvenuta rimonta con quella del 1° agosto. E imbarazzante l’errore – tale è: non una scelta – di far lavorare un “assembramento”, il pur valido Coro Ghislieri di Pavia, all’inizio e alla fine dell’opera: quei due unici, brevissimi brani a tre voci sono infatti destinati in modo vistoso all’insieme dei cantanti solisti.

Come accennato, in questo orizzonte i cantanti hanno dovuto provvedere soprattutto da sé e per sé, con un risultato positivo che ha procurato loro un doppio merito. Carmela Remigio è corsa in Valle d’Itria all’indomani dell’ultima recita di Faust a Venezia, per subito camaleonticamente acclimatarsi in una parte di tutt’altra pasta scenica e canora: dà luogo a una protagonista dai mezzi vocali sempre ricchi, duttili, coloriti, taglienti, disinvolti, tanto più sorprendenti dove l’attrice segua invece un moderno profilo irrigidito dai mali, espresso a pugni chiusi e denti stretti. Non a fuoco, invece, Raffaele Pe come Gualtiero, parte concepita per il sommo Antonio Bernacchi e degna di altra nitidezza d’emissione e incisività di pronuncia. Fresca e giovanile la Costanza di Mariam Battistelli, semidebuttante in quella che fu la parte d’esordio di Giovanni Carestini (l’unico vero rivale di Farinelli). Una rivelazione in Miriam Albano: recitazione vividissima, carica di ogni energia, e un canto che stravince nel versante sia patetico sia di bravura. Eccellente per omogeneo smalto e torvo accento l’Ottone di Francesca Ascioti, provvidenziale epigona della miglior Bernadette Manca di Nissa. Il più banale dei segreti per fare bene un’opera italiana, infine, è affidarsi a voci tutte italiche: tra esse va annoverato di diritto Krystian Adam, polacco di nascita ma caparbiamente naturalizzato, capace di un Corrado colmo di comunicativa.


 

 

 
 
 

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