L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Beethoven alla Chung

di Francesco Lora

Il direttore sudcoreano ha inaugurato la stagione d’opera e quella sinfonica del Teatro La Fenice, con Fidelio e la Sinfonia n. 9. La Bakanova e Cortellazzi si impongono, nella compagnia di canto, e insidiano il protagonismo della Wilson.

VENEZIA, 23 novembre e 5 dicembre 2021 – Fidelio ha inaugurato la stagione d’opera del Teatro La Fenice, con cinque recite dal 20 al 30 novembre: esse valgono anche come risarcimento a Beethoven, il cui 250° compleanno, nel 2020, è finito internazionalmente guastato dalla pandemia. La lettura musicale di Myung-Whun Chung, già a monte dell’ascolto, reitera però un errore bello e buono: avviare l’opera non con la sua legittima ouverture, composta per la terza e definitiva versione del 1814, ossia quella corrente e scelta per le recite a Venezia, bensì con l’ouverture detta Leonore n. 3, composta per la seconda e assai differente versione del 1806. Il direttore sudcoreano lo aveva già fatto al Teatro alla Scala, nel 2018 [leggi la recensione], personalizzando un precedente arbitrio di Daniel Barenboim, il quale nel 2014, a Milano, nel varare lo stesso allestimento, aveva a sua volta scomodato la Leonore n. 2, composta per la prima e a sua volta autonoma versione del 1805. (E la Leonore n. 1? Fu, in verità, la terza ouverture composta, per una ripresa della seconda versione a Praga: guai a fidarsi dei numerali, nei cataloghi dei compositori!) Orbene: la Leonore n. 3 è una meraviglia e ascoltarla è una benedizione; una buona tradizione istituita da Mahler la vede inserita nel cambio di scena tra l’una e l’altra mutazione dell’atto II, nel Fidelio del 1814: l’effetto è quello di un poema sinfonico che riepiloga le tenebre della criminale ingiustizia patita dai due protagonisti e che, nel contempo, trasfigura la loro esultanza nel ritrovarsi riuniti e restituiti alla libertà (lui tolto alla prigionia e a una morte certa, lei tolta alla dissimulazione in vesti maschili). Aggiungere si può, cum grano salis e a maggior ragione come intermezzo mentre il sipario è chiuso, il pubblico in attesa, i tecnici al lavoro, l’azione in sospeso; al contrario, tagliare l’ouverture titolare, per rimpiazzarla con quella di una diversa versione, anzi, de facto, di un’altra partitura, è un abuso senza giustificazione, un atto di sfiducia verso l’autore, uno strambo sabotaggio testuale. Una questione venuta alla ribalta anche nell’attuale Macbeth alla Scala [leggi la recensione], con l’inserimento, nel finale della seconda versione, di una scena appartenente solo e unicamente alla drammaturgia e alla tinta musicale della prima stesura: una scena cassata dunque da Verdi in vista di una soluzione affatto nuova, più persuasiva e per nulla aperta a capricciose manipolazioni da parte dell’interprete.

La direzione di Chung, nondimeno, è degna del suo braccio: procede con decisione, esclude i fronzoli, calcola le sfumature, punta dritta al sodo; sfoga energicamente gli archi ma fa intanto affiorare i preziosi dialoghi dei legni; può contare sulla fedelissima attenzione dell’orchestra e del coro veneziani (fulgidi); supera in prestanza tecnica e schiettezza retorica la prova milanese di tre anni fa. Lascia la bocca asciutta, invece, il nuovo allestimento con regìa di Joan Anton Rechi, scene di Gabriel Insignares e costumi di Sebastian Ellrich. Stupisce, soprattutto, che un regista capace di imprimere un segno profondo nel Faust della scorsa estate [leggi la recensione], una volta avuto l’incarico di provvedere all’apertura di stagione nello stesso teatro, si presenti lì sprovvisto di una drammaturgia nitida, coerente, riferibile, tanto più al cospetto dei valori universali e non di maniera che tematizzano l’opera: la fedeltà, la giustizia, la libertà. Motivo di rimpianto è anche che da lui non sia venuto quel lavoro con gli attori utile a riscattare una compagnia spesso deficitaria sul fronte del canto. I migliori in campo sono di gran lunga Ekaterina Bakanova e Leonardo Cortellazzi, una Marzelline e uno Jaquino insolitamente timbrati, affabili, vigorosi, per nulla disposti a farsi relegare in un àmbito di contorno. Sempre notevole è anche la rinomata Tamara Wilson, in fatto di squillo e risonanza, benché l’appassionata parte della protagonista Leonora calzi su di lei piuttosto rigidamente e con una certa fredda estraneità di carattere. Quanto a Oliver Zwarg come Don Pizarro, Ian Koziara come Florestan, Tilmann Rönnebeck come Rocco e Bongani Justice Kubheka come Don Fernando, si tratta invece di onesti, talora non meglio che volonterosi professionisti, adeguati alle necessità quotidiane di un teatro di repertorio germanico più che alle esigenti aspettative di una fondazione lirica italiana. L’inaugurazione della stagione sinfonica, il 4 e 5 dicembre, è parsa continuare uno stesso discorso, con la Sinfonia n. 9 di Beethoven in cartellone e sul podio ancora Chung: un’esecuzione, questa, sveltissima, fortissima, verrebbe da dire brutalistica, con mezzetinte ridotte all’osso e un’unica garanzia nella virtuosistica, spiazzante, comunque solida avventatezza del direttore; i complessi della Fenice ne sono usciti con insolenza; con coraggio i quattro cantanti solisti: Maida Hundeling, Anke Vondung, Vincent Wolfsteiner e Thomas Johannes Mayer.


 

 

 
 
 

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