Beethoven secondo il concerto
di Antonino Trotta
L’integrale dei concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven chiude la stagione dell’Associazione Lingotto Musica: ne è protagonista Alexander Lonquich nella duplice veste di solista e direttore dell’Orchestra da Camera di Mantova.
Torino, 30 giugno e 1 luglio 2021 – Eseguire, due volte in due giorni, tutti i concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven, quando si vuole eseguire ogni concerto con proprietà stilistica e cognizione del momento storico, è un’impresa a tratti titanica. Alexander Lonquich, ospite dell’Associazione Lingotto Musica per la chiusura di stagione, si divide poi tra sgabello e podio, balzando all’ultimo millisecondo dall’uno all’altro con scatto di agilità felina – osservandolo dalla coda del pianoforte tante volte s’è temuto il ritardo di un attacco, timore mai concretizzatosi –, e raddoppia così il già raddoppiato sforzo domandato all’interprete. Sforzo che non è solo, in fin dei conti, prova di resistenza fisica e mentale, ma anche e soprattutto flessibilità di pensiero, capacità di dimenticare quanto s’è fatto prima e di concentrarsi sull’immediatamente dopo cosicché si possa onorare quel geniale percorso di crescita di cui ognuno dei cinque concerti è tappa cruciale. Basti solo pensare al primo e al secondo concerto, rispettivamente il concerto n. 2 in si bemolle op.19 e il concerto n. 1 in do maggiore op. 15 – il disguido nella numerazione/catalogazione è ben noto –: li separano pochi mesi e un abisso.
Il primo dei due, nella suo schema in interazione solista-orchestra, nella sua struttura lineare, deriva evidentemente dal modello mozartiano, eppure il Rondò conclusivo non nasconde il flirt con l’estrosità ritmica di Beethoven, una preziosa costante del suo inarrivabile cammino artistico. Lonquich e l’Orchestra da Camera di Mantova ne forniscono un’interpretazione pulita, piuttosto geometrica, che non indugia col metronomo e soprattutto asseconda, per esaltare, i capricci della sincope – che Lonquich esegue, al pianoforte e all’orchestra, con accentazione ben marcata – in questo Rondò finale, senza dubbio il punto più alto dell’intero lavoro. Pianoforte e orchestra si muovono con armoniosa comunione d’intenti che, in questo caso particolare, si traduce in un vivace alternarsi di eco e risonanze, in un gioco di simmetrie e riflessi.
Il concerto n.1, in seconda posizione della prima serata, reca già il segno della zampata del leone: il dettato, pianistico e orchestrale, si fa più interessante, il lessico si arricchisce di nuovi vocaboli, soprattutto Beethoven comincia a mettere in crisi la posizione del solista quale primus inter pares, avviando il concerto verso l’ormai prossimo modello romantico. A fronte di tale pregevolezza Lonquich risponde con una concertazione stavolta più focalizzata sulla morbidezza delle dinamiche, che lato pianoforte mai hanno mancato di impreziosire il prodotto sonoro ma che lato orchestra avevano sofferto, almeno nel primo concerto, di una certa severità di scansione. Musicista erudito, Lonquich non manca, anche in questo caso nel Rondò finale, di esporre con slancio danzereccio e elegante umorismo il materiale di natura ungherese presente nell’Allegro scherzando conclusivo. Diventa così energizzante la tendenza, notata in generale nei primi tre concerti e appena nel Rondò del quarto, ad accelerare piccoli incisi, forse talvolta dettata dalla necessità di non lasciar andare l’orchestra mentre si è al pianoforte e qui ben inserita in un contesto dal sapore selvaggiamente zingaresco e imprevedibile.
Nel concerto n.3 in do minore op.37 la misura del genio beethoveniano è evidente: la scrittura ha ora un respiro sinfonico, la fortunata tonalità di do minore offre a Beethoven ancora una volta la possibilità di scolpire un tema plastico e incisivo, il pianoforte, sempre più in vigorosa dialettica con la massa orchestrale, esibisce una personalità diversa, prorompente. L’attacco dell’Allegro con brio iniziale è enigmatico prima, tragico poi, puntellato dagli stessi imperiosi accenti orchestrali che ora Lonquich espone in virtù di una necessità drammatica. Anche nello svolgimento degli abbellimenti della scrittura pianista, che qui e là sembrano far capolino per smorzare la tensione del movimento, Lonquich non concede alcunché al lezioso: questi sembrano eseguiti come da una terza mano estranea al solista, come lampi improvvisi di luce in una notte buia. Della cadenza, infine, si ha una lettura mozzafiato: impetuosa, autorevole, inarrestabile nella suo crescendo sonora e teatrale, pur rimanendo ovunque sorvegliata da un musicalissimo gusto per l’equilibrio e per la misura.
Col concerto n.4 in sol maggiore op.58 ci si addentra appieno del Beethoven aurorale della sonata “Waldstein”, nel Beethoven delle sonorità prodigiose e intimistiche, della cantabilità dolce e luminosa, degli impasti timbrici raffinati e avvolgenti, dalla vasta gamme espressiva, che rifiuta fin da subito i modelli canonici aprendo il concerto col pianoforte invece dell’orchestra – particolare la scelta di Lonquich di arpeggiare il primo accordo, rinunciando quindi alla perfetta simmetria nella risposta dell’orchestra –. L’Allegro moderato incoativo è un paradiso vaporoso e delicato: Lonquich cava dallo strumento piani impalpabili, lega a regola d’arte gli accordi iniziali, fraseggia con classe eccelsa gli involi affidati al solista, stavolta concedendo anche più respiro all’incedere agogico del movimento. L’Andante con modo centrale è un altro capolavoro: sulfureo, inquieto, teso, si sviluppa in sella al violento contrasto tra orchestra e pianoforte, la prima aggressiva nei suoi lapidari interventi, il secondo dolente e fiero nel suo soave melodiare, spezzato solamente da un’intensissima cadenza – secondo una tradizione più o meno accreditata, il mito di Orfeo che soggioga le forze dell'Ade con la bellezza del suo canto –. Il Rondò conclusivo, infine, si muove un po’ tra passato e presenta: Lonquich ne sottolinea entrambi gli aspetti, ora esasperandone la carica propulsiva tipica dei rondò, ora mettendo in risaltò la novità dell’invenzione melodica che è il rovescio della medaglia del Beethoven eroico e titanico.
Infine il concerto n. 5 in mi bemolle maggiore op.53 “Imperatore”, forse il più noto e più eseguito dell’intera pentalogia, sicuramente il più rivoluzionario dei cinque per il ruolo di struttura portante, di sostegno assoluto del discorso musicale che il pianoforte ricopre in tutto il concerto: qui il solista non figura come suo antagonista dell’orchestra in uno svolgimento di trame, piuttosto collabora con essa, raccogliendone, anticipandone, esasperandone suggestioni e idee. Lonquich e l’OCM ne offrono una lettura entusiasmante per piglio e brillantezza che ha origine dalla cadenza iniziale – un’altra novità a livello strutturale del concerto che Lonquich esegue con maestosità autentica e non compiaciuto – e che, per i meccanismi propri di questo concerto di raccolta e propagazione delle idee da una parte all’altra, si preserva inalterata fino alla fine dell’Allegro. Il garbato Adagio un poco mosso centrale, finalmente eseguito con consapevolezza dell’indicazione un poco mosso, è un quindi un leggiadro trampolino di lancio per l’irresistibile Allegro conclusivo. Nota a piè di pagina: il diminuendo sulla discesa a ottave spezzate, prima della riesposizione del tema, è un virtuosismo che riesce a pochi.
Due serate fantastiche caldamente applaudite dal pubblico, generosamente ripagato con due bis: il primo movimento della sonata n.12 op.26 (mercoledì 30 giugno) e il Rondò del concerto n.1 (giovedì 1 luglio). Ora non ci resta che aspettare le novità per la prossima stagione.