Musica e silenzio
di Lorenzo Cannistrà
András Schiff torna al Quartetto dopo due anni di assenza con un programma a “sorpresa”: più di due ore di musica con l’amato Schubert delle ultime sonate D 959 e D 960, intervallate dalla Sonata in do minore Hob.XVI:20 di Haydn e il Rondò K 511 di Mozart
MILANO 12 aprile 2022 - Questa volta la Sala Verdi del Conservatorio è strapiena: non si riesce ad intravedere, guardando su e su, dove le file diventano vuote. Il concerto di questa sera è di quelli che richiamano il pubblico perché, come si suol dire, il nome è una garanzia e non ha bisogno di presentazioni.
Ormai da diverso tempo Sir András Schiff ci ha abituato alla formula del programma “a sorpresa”, il che quindi non rappresenta in realtà più una sorpresa, ma continua ad essere una felice trovata per rendere meno ingessato l’altrimenti stantìo rito del recital solistico. Tuttora, quando il pianista non ha ancora scelto i pezzi da suonare (e giustamente, quando il concerto è programmato con largo anticipo) si usa indicare nel link dell’evento che il programma è ancora “da definire”, con una dizione che effettivamente fa pensare all’ordine del giorno di un’assemblea condominiale, più che ad un evento culturale. Trasformando il “programma da definire” in “programma a sorpresa” indubbiamente viene sburocratizzato l’aspetto dell’offerta musicale, senza che ciò rappresenti per il pubblico un problema, dato che Schiff, fortunatamente, è ancora un pianista in grado di rendere poetica e musicalissima anche, non so, la marcetta che Salieri dedica a Mozart in una memorabile scena di Amadeus, il celebre film di Miloš Forman.
Schiff fa il suo ingresso sul palcoscenico con l’aplomb e l’eleganza che si addicono ad un baronetto: papillon nero e largo, panciotto con doppia catena e passo misurato. Parte con la Sarabanda dalla Suite francese in sol maggiore n. 5 BWV 816 , un pezzo che ricorda non poco l’Aria dalle Goldberg- Variationen. E proprio quest’ultimo pezzo sarà infatti, come un cerchio che si chiude, l’unico bis che il pianista farà, a suggello di un concerto a tratti memorabile.
Preso il microfono, Schiff parla brevemente, strappando qualche risata con il suo consueto, soffice umorismo, promettendo “musica di prima classe, e non di terza classe” (risate sonore), “non solo per l’interpréte, ma soprattutto per la musica stessa”, ed annuncia il primo brano.
La sonata in do minore di Haydn è stata, insieme alla D 959, il momento più alto della serata. Si tratta di un capolavoro “precoce” – non per Haydn, che aveva quasi 40 anni – ma per i tempi, dato che secondo alcuni si tratta della prima vera sonata per pianoforte, con un linguaggio peraltro già assai moderno e sviluppi inusitati anche rispetto alle ben più famose Sonata K 457 di Mozart e Op. 13 (“Patetica”) di Beethoven, nella medesima tonalità.
L’esecuzione di Schiff è limpida, quasi diafana, con una tessitura leggerissima in cui tensioni e drammi ballano sopra calici di cristallo. In alcuni momenti è sembrato di sentire lo Scarlatti dell’incredibile sonata in do minore K 115, magnificamente incisa dal giovane Schiff in un famoso disco della Decca.
A seguire, l’ultima sonata di Schubert, la sublime e interminabile D 960, e questo basta già a capire che solo la prima parte del concerto è stata lunga quanto l’intero recital di un qualsiasi altro pianista. Ma il baronetto non difetta certo in generosità. Nella breve introduzione al pezzo parlerà di “musica dell’altro mondo” e dell’importanza che ha il silenzio in musica, a volte importante quanto la musica stessa. Non a caso tutti i brani suonati in questo concerto contengono delle pause di grandissimo effetto e significato.
Nei primi due movimenti Schiff è semplicemente perfetto, per scelte di tempo e timbriche sempre adeguate. Il pianista ungherese (naturalizzato inglese), che non è mai stato un titano della tastiera, da molto tempo ha seguito in Schubert la lezione di Wilhelm Kempff, che si ritrova nella morbida consistenza degli accordi, nell’accompagnamento sussurrato, nella continuità del canto, nel “quarto di tono” che riesce a trovare miracolosamente nel trillo al basso.
L’ultimo movimento mi ha lasciato invece un po’ di rammarico a causa di una, a mio avviso, eccessiva pensosità, sottolineata da tempi più lenti del normale, forse anche per avere quella prudenza necessaria a dominare gli stacchi più impegnativi (e qualche difficoltà puramente digitale è comunque emersa proprio lì). Nonostante la raffinatezza, lo spessore intellettuale profusi nell’esecuzione, in questa musica continua a mancare troppo spesso, in Schiff come in molti pianisti d’oggi, quella gioia di vivere che gli oscuri presagi di morte non riescono a dissolvere. Quella gioia che, a distanza di settant’anni, riluce ancora nella leggendaria esecuzione di Horowitz alla Carnegie Hall.
La seconda parte si apre con quella composizione prodigiosa che è il Rondò K 511 in la minore (Schiff in un lapsus dice K 510), seguito dalla sonata D 959, alla quale Schiff fa una vera e propria dichiarazione d’amore nel suo solito breve preambolo. E la suona effettivamente come se fosse la musica più bella che sia mai stata scrtta. Non è stata una performance da dover riguardare sotto l’aspetto della solidità pianistica e del virtuosismo. I passaggi più impegnativi sono stati risolti con grande souplesse, si potrebbe dire aggirati con grande mestiere. Eppure è stata un’esecuzione davvero intensa e partecipata, sin dai primi accordi di la maggiore, veramente scavati nella tastiera e assertivi. Sempre bellissimi i momenti in cui bisogna cantare, e Schiff lo ha fatto con una bellezza uniforme e costante. Ma non è mancata la varietà: anzi i momenti più indimenticabili si sono avuti nello sviluppo del primo movimento, in cui Schiff ha colto l’occasione per sottolineare l’andirivieni armonico tra maggiore e minore, che sembra assecondare i moti di un animo inquieto, e nella pazza sezione centrale del secondo movimento. Qui il nostro grande pianista ha inventato un colore ogni volta diverso per ogni frammento di questo modernissimo caos in cui scale, accordi in ff, ottave spezzate si dibattono nell’esiguo spazio di poche battute. Davvero un notevolissimo approfondimento di questo frame.
Per essere un artista che non fa del virtuosismo puramente fisico il suo must, la stretta conclusiva è stato eseguita con buona efficacia e brillantezza. Il la conclusivo è stato tenuto per un tempo indefinito: sembrava che Schiff volesse lasciar disperdere tutto quel suono fino al silenzio totale, e al contempo sfidare il pubblico a resistere nel far partire l’applauso, tanto per verificare che il monito sull’importanza del silenzio in musica fosse stato recepito. Purtroppo nel bis – come dicevamo, l’Aria dalle Goldberg – il solito “impaziente” ha cominciato a spellarsi le mani sull’ultimo sol, con conseguente sgretolamento della consueta espressione estatica che il pianista ha quando suona.
Arrivederci a presto, sir.