Il dio invisibile del pianoforte
di Alberto Spano
Jae Hong Park, vincitore dell'ultimo Concorso Busoni, tiene un notevole recital per Musica Insieme in Ateneo a Bologna.
BOLOGNA, 8 aprile 2022 — A differenza di molti suoi colleghi, il ventitreenne pianista coreano Jae Hong Park, ascoltato l’8 aprile all’Auditorium DAMSLab per Musica Insieme in Ateneo, nel proprio curriculum cita un solo insegnante, Daejin Kim, e una sola istituzione, l’Università delle Arti della Corea. Cosa rara.
A Bologna il giovane Park suonava in quanto vincitore dell’ultima edizione del Concorso Busoni di Bolzano. In altri tempi il vincitore del Busoni avrebbe richiamato le folle, mentre l’altra sera solo un piccolo nugolo di appassionati (fra i quali alcuni pianisti) si ritrovavano nell’auditorium di piazzetta Pasolini. Pochi, ma fortunati. Non si possono fare previsioni azzardate, ma ciò che si è ascoltato è assai promettente. E il pensiero, mentre il pianista si esibiva, non poteva non andare a ciò che scriveva ben settantatré anni prima Dino Buzzati in una cronaca della prima edizione del concorso bolzanino, dove era inviato per il Corriere della Sera. L’edizione 1949, quella leggendaria presieduta da Cesare Nordio, in giuria nientemeno che Arturo Benedetti Michelangeli, Nikita Magaloff, Antonino Votto, Egon Kornauth, Jacques Fevrier e l’ultimo allievo vivente di Busoni, il veneziano Gino Tagliapietra. Un’edizione, come molte altre a venire, che fu senza vincitore, con un quarto premio assegnato a un Alfrel Brendel diciottenne che… Chissà come avrà mai suonato? Non esistono documentazioni, purtroppo.
Ebbene, verso la metà dell’articolo, dopo aver fatto cronaca spicciola, la favolosa penna di Buzzati prende il volo: “Non c’è concerto, non c’è specialmente esame come questo, in cui l’artista non sogni che lo soccorra l’invisibile dio del pianoforte. Questo dio è permaloso, magro, alto, allampanato, con capelli lunghi e in disordine, veste una gabbana stile Hoffmann piena di macchie e di miseria, e ha un misterioso disprezzo per il virtuosismo puro: ben altro è quello ch’egli vuole e dà. Egli infila le sue scarne dita, come in un guanto, nelle mani dei prediletti, e così suona. Allora non conta più la precisione, la velocità, la forza, il ritmo, il tocco, l’equilibrio, o meglio tutto questo può essere benissimo dimenticato; allora nasce qualcosa di oscuro e indefinibile che anche i più sagaci critici si trovano imbarazzatissimi a catalogare; e su per la schiena di chi ascolta un brivido sale adagio adagio.”
L’altra sera con Jae Hong Park il brivido è salito adagio adagio nel finale dell’Arabeske op. 18 di Schumann che apriva il programma. Il momento più alto del brano, nel quale il compositore premette le parole Zum Schluss (per finire).
Dice bene Buzzati, è difficile spiegare il perché, ma succede. Improvvisamente senti che chi suona ha penetrato tutto del brano, il tempo, i colori, i rilievi armonici, l’affondo del tasto, lo spirito poetico, il messaggio. Succede, lo si capisce, e non lo si spiega. Semplicemente il dio beffardo del pianoforte si infila nelle dita del pianista ignoto, e sale il brivido. Fino a quel momento l’esecuzione era stata perfetta, ma normale. Da lì in poi cambia tutto. Naturalmente Schumann ci mette del suo, poiché il finale di Arabeske è una delle pagine più felici della letteratura pianistica e dell’intero Romanticismo, lo spalancarsi di un mondo nuovo. Però questo gioco trascendentale bisogna capirlo e realizzarlo. Park lo ha fatto, in un modo che commuove. Il brivido ha poi permeato l’intera la Sonata n. 1 in fa diesis minore op. 11 di Schumann, iniziata sapientemente senza soluzione di continuità, dopo l’ultima nota di Arabeske. Lo ammettiamo: mai si era ascoltata una “Introduzione” più convincente come l’altra sera, un declamato quasi baritonale. La tecnica di Park è eccellente, sebbene non virtuosistica. Ma è evoluta al punto giusto, cioè per realizzare al meglio ciò che la mente richiede, alla Richter.
La paletta timbrica è straordinaria, i tempi scelti — mai estremi — paiono ideali, e c’è un’attenzione tutta particolare, quasi un innamoramento, per le sospensioni dei suoni, per le pause. L’andamento agogico (cioè il gioco dei rubati) è molto vario, spesso audace: si direbbe quasi che il pianista non faccia musica, ma teatro.
Chi è del mestiere diventa matto quando sente certe cose sciorinate in pubblico con tanta semplicità: come mai avrà fatto il giovane a differenziare così le voci, a far rombare così il basso nella ripresa, a tenere tutto sotto controllo, con sempre in evidenza la linea del canto e senza mai perdere il senso della forma? Mistero. Park realizza il verbo schumanniano con dedizione assoluta, differenzia a meraviglia la poesia intima di Eusebio e gli slanci fantastici di Florestano, non si incarta mai, esce indenne ed elegante dal viaggio tempestoso. Quasi un miracolo.
Il dio del pianoforte continua a restare nelle grandi mani e dita del vittorioso Jae Hong nel Preludio, Corale e Fuga di César Franck, che conclude il concerto. Brano di moda un tempo, decisamente uscito di repertorio, difficilotto ma non impossibile, spesso eseguito malamente nei saggi finali e nei concorsi. Con Park sembrava di ascoltarlo per la prima volta. Il dio lunatico del pianoforte rimaneva ben rintanato nelle dita di Park, che esponeva un “Corale” di esemplare plasticità e un finale ben strutturato e avvincente. Capolavoro esecutivo di rara bellezza.
Fuori programma il Preludio in si minore di Bach trascritto da Siloti e un Preludio di Rachmaninov. Possiamo dirlo? Per una volta — è successo poche volte in settantré anni di storia del Busoni — non è il concorso a fare grande il pianista, ma è il pianista a fare grande il concorso. Evviva.