Fredda ed immobile
di Luigi Raso
Ricordando l'arpista del San Carlo Antonella Valenti, prematuramente scomparsa, va in scena Lucia di Lammermoor al Massimo partenopeo. La produzione, ipertradizionale nell'ambientazione e lontana nell'assenza di azione dallo spirito del dramma, di Gianni Amelio viene ripresa con esiti musicali alterni ma non privi di motivi d'interesse.
Napoli, 18 gennaio 2022 - I tanti che in occasione del recente Otello di Giuseppe Verdi (leggi la recensione) si sono lamentati dell’allestimento distopico firmato da Mario Martone avranno ricevuto il sospirato premio di consolazione nel rivedere Lucia di Lammermoor, secondo titolo operistico della stagione lirica, riproposto sulle scene del San Carlo nell’allestimento ipertradizionalista firmato nel 2012 dal cineasta Gianni Amelio: una produzione che già al suo debutto, così come nella successiva ripresa del 2017, ci apparve datata, una riproposizione, sebbene esteticamente gradevole e suggestiva, di spettacoli lirici che pensavamo ormai consegnati alla amorevole cura del tempo passato. Quest’ultima ripresa non ci fa cambiare opinione; anzi, l’originaria impressione, dopo dieci anni, è diventa ancor più granitica.
La messinscena - termine che Gianni Amelio preferisce a regìa, come afferma egli stesso nell’intervista del 2012 riproposta nel programma di sala - si fonda su pochi e convenzionali movimenti, su un immobilismo tra i protagonisti, chiamati dal regista a cantare rivolti verso il pubblico più che ad interagire tra loro. Né il giovane regista di questa ripresa, Michele Sorrentino Mangini, riesce a svecchiare e a scardinare, imprimendone dinamismo, una produzione statica, incastonata tra le belle scene di Nicola Rubertelli, perfette nel restituire la consolidata immagina romantica di una Scozia plumbea e claustrofobica, e gli elegantissimi costumi di Maurizio Millenotti, che ci riportano nel ‘500 popolato da gorgiere, sciabole e alabarde, nobili e guerrieri. Le scene si susseguono cupe, incarnazioni ed estremizzazioni della “tinta” dell’opera, soltanto a tratti rischiarate dall’essenziale gioco luci di Pasquale Mari e ravvivate dagli elementi coreografici minimalisti di Stéphane Fournial. Si restituisce, dunque, all’opera quell’ambientazione immaginata da Scott-Cammarano-Donizetti, ma con difficoltà ne scorgiamo lo spirito autentico e il grido di ribellione e denuncia di Lucia, così presente nel capolavoro di Donizetti, il cui atto di nascita reca come data quella del 25 settembre del 1835 e come culla proprio il San Carlo.
Passando all’aspetto musicale, la direzione di Carlo Montanaro, che ritorna al San Carlo dopo Il turco in Italia trasmesso in streaming nel marzo dello scorso anno (leggi la recensione), imprime all’intera opera un’andatura eccessivamente spedita, alla quale concede pochi respiri dinamici: una tendenziale meccanicità che, inchiodando orchestra, coro e cantanti a una condizione serrata, prosciuga Lucia delle oasi di lirismo di cui è intrisa. Problematica si dimostra la gestione dei volumi, del delicato gioco di pesi e contrappesi sonori all’interno dell’orchestra e tra buca e palcoscenico: ottoni e percussioni risultano prepotentemente presenti. Non sempre protagonisti e coro appaiono ben sostenuti e adiuvati dall'orchestra.
La prova del Coro del San Carlo, guidato da José Luis Basso, costituisce un’ulteriore conferma dell’ottima forma in cui lo avevamo lasciato e apprezzato prima delle festività natalizie: la compagine è coesa, mostra buon amalgama tra le voci, levigatezza sonora, varietà di colori e dinamiche, sebbene in questa occasione risulti poco valorizzato dalla concertazione.
Nadine Sierra, com’era giusto che fosse, è tornata a Napoli con l’aura di star dei nostri giorni. Stasera è chiamata a vestire i difficili panni di Lucia: il giovane e acclamato soprano statunitense canta obiettivamente bene: è precisina, graziosetta, ha voce dal volume non ragguardevole, ma dal timbro suggestivo; tutte qualità amministrate da buona tecnica che le consente di sfoggiare acuti svettanti, benché non sempre rotondi e luminosi come ci si aspetterebbe. La sua è una prova in crescendo nel corso della serata, ma che perviene, quanto ad interpretazione, a un abbozzo di Lucia: tante belle note, una linea di canto pulita, cadenze farcite di acuti non riescono a rendere appieno la tormentata personalità di Miss Ashton. La grande scena dalla pazzia, in questa occasione eseguita con l’accompagnamento della glassarmonica dell’ottimo Sascha Reckert, è eseguita con estrema pulizia, tuttavia la resa complessiva, seppur salutata da un tripudio di applausi, tradisce diffusa meccanicità, tale da mostrare più le doti di fine vocalista della Sierra piuttosto che quelle di interprete.
Ha ottimo materiale Pene Pati, giovane tenore samoano: per la sua vocalità, tuttavia, la parte di Edgardo appare troppo ardua, timbro è suadente e luminoso, è buona la dizione, ma il tutto è sorretto da una tecnica periclitante, troppo distante da quel nobile cantar sul fiato che il repertorio donizettiano (e non solo!) richiede come conditio sine qua non. Il risultato: troppo spesso la voce risulta eccessivamente “spoggiata”; ed a farne le spese è anche lo stile, troppo prossimo - in Donizetti, e nel 2022! - a quello iper-verista, che, per fortuna, è in gran parte archiviato quasi ovunque. Eccessivamente truculenta è la sua Maledizione (“Hai tradito il cielo, e amor! Maledetto sia l’istante che di te mi rese amante...”); nel finale, il suo "Tu che a Dio spiegasti l’ali", benché stilisticamente discutibile, Pati denota accenti incisivi e immedesimazione.
Convince per attenzione alla parola, intenzioni interpretative e attenzione agli aspetti cantabili della parte il Lord Enrico Ashton di Gabriele Viviani, efficace nel rendere tangibile la cattiveria del fratello di Lucia, così come l’immediata “poca simpatia” del personaggio. Grazie a una linea di canto nel complesso pulita e convincente, timbro ben definito nei centri, il baritono italiano plasma la cavatina "Cruda, funesta smania" con tratto altero e convincente.
Alla serata delle prove in crescendo dei protagonisti si iscrive anche quella di Dario Russo come Raimondo, pur apparendo eccessivamente sussiegoso e denotando qualche problema di emissione. La resa del personaggio di Raimondo, comunque, risulta nel complesso convincente.
L’emozione gioca un brutto scherzo a Daniele Lettieri, impegnato nella breve parte di Lord Arturo Bucklaw. Peccato.
Il cast è completato dalla Alisa di Tonia Langella e dal comprimario esperto e di lusso di Carlo Bosi come Normanno.
Al termine della rappresentazione, il pubblico in sala, sebbene non folto ma non intimidito dall’assedio del Generale Covid, saluta tutti con applausi prolungati, riservando l’ovazione della serata a Nadine Sierra.
I teatri sono anche luoghi di presenze, assenze e memorie: stasera il pensiero della grande famiglia del San Carlo è andato, non appena si sono ascoltate le prime note dell’arpa durante l’introduzione orchestrale a "Regnava nel silenzio", ad Antonella Valenti, magnifica prima arpa dell’Orchestra del Teatro, recentemente e prematuramente scomparsa, alla quale il Teatro dedica questa produzione di Lucia di Lammermoor. Il suo sguardo ceruleo, la chioma bionda, la gentilezza della persona e d’animo resteranno nel ricordo degli spettatori più assidui così come in quell’indefinito patrimonio di memorie che le sale teatrali amorevolmente custodiscono.