Brillasti un dì, ma ti perdei
di Roberta Pedrotti
L'operazione vintage di ripresa della Favorita in italiano mostra tutti i limiti del testo rimaneggiato dopo la morte di Donizetti. Andrea Cigni fa quel che può per dar forma scenica a un libretto zoppicante, non brillano né il cast né la concertazione di Matteo Beltrami a capo della problematica Orchestra Filarmonica Italiana.
PARMA, 25 febbraio 2022 - Quando tutto va bene, non abbiamo motivi per metterci in discussione, per riflettere. Sono i problemi a farci pensare. In questo momento, di guai a cui pensare ne abbiamo a non finire e perlomeno nell'arte possiamo esercitare riflessioni e spirito critico con altra serenità.
E, dunque, se ancora nel 2022 si decide di mettere in cartellone La favorite non come Donizetti l'ha scritta, ma come è stata rimaneggiata, dopo la morte del compositore, sulla traduzione italiana di Francesco Jannetti (1860), prima di tutto ci si interroga. Amor di tradizione, per non spaventare un pubblico ancora abituato a canticchiare “Spirto gentil” o “Vien Leonora”? Oppure omaggio a quella stessa tradizione che portò spesso il titolo in trionfo con Kraus o Pavarotti, Simionato o Cossotto? Magari anche la curiosità di rispolverare l'opera “come una volta” e vedere l'effetto che fa? Diciamocelo, questo è il punto: l'effetto di questa Favorita italiana alla prova della scena. Facile che si levi il grido del melomane nostalgico “il problema è che non ci sono più Kraus e Pavarotti, Simionato e Cossotto!” Certo, i cantanti di ieri, per definizione, non sono quelli di oggi, ma pure di Favorite riuscite benissimo negli ultimi anni ne abbiamo avute parecchie, in Italia e all'estero: tutte in francese, in versione originale.
La favorita con il libretto di Jannetti non regge: reggerà la singola aria, fissata nella nostra abitudine atavica, ma non l'architettura drammaturgica. I cambi alla trama sono troppo significativi: il novizio Fernando si ritrova a essere figlio dell'abate Baldassarre e pure fratello della regina; quindi il monaco viene declassato, da una sorta di Grande inquisitore che porta la voce della chiesa a interferire con sfera pubblica e privata del sovrano, a piccolo Monterone in saio, intento a vendicar l'onore della figlia. Intanto, non è chiaro perché il cognato del re sia ignoto al re stesso e trattato come un pezzente parvenu dagli altri nobili. Cosa non si fa per asservire la censura! La favorita sembra parente stretta, in realtà, dei Viscardelli, delle Oriette di Lesbo e delle Giovanne di Guzman che mascheravano ai censori titoli verdiani a rischio (rispettivamente, Rigoletto, Giovanna d'Arco, Les vêpres siciliennes). Come se non bastasse, il ridurre tutto alla telenovela familiare dell'abate getta alle ortiche il quarto atto: la potenza del contrasto fra il rito sacro in cui Fernand prende ufficialmente i voti e il riaccendersi della passione per Léonor (eros e misticismo, come intonerà Massenet, con Manon e Des Grieux a Saint Sulpice e Thaïs) diventa il contrasto fra il confronto con Leonora e il funerale della fantomatica sorella infarcito di maledizioni verso la scostumata amante del re. E quel finale annichilente in cui Fernand chiede aiuto, chiama i confratelli e infine afferma “Et vous prierez pour moi, demain” viene tagliato per un pleonastico “è spenta” con acuto ad effetto. Anche un bravo regista come Andrea Cigni (scene di dario Gessati, costumi di Tommaso Lagattolla, luci di Fiammetta Baldiserri) è costretto ad arrampicarsi sugli specchi e a eludere dettagli della trama: la sua visione chirurgica di un teatro anatomico in cui poveri esseri umani vengono costretti a sacrificare sé stessi nelle maschere e nei doveri dei personaggi è condotta con coerenza, ma non può spingersi oltre in un testo che non ha nulla da offrire se non un canovaccio scheletrito.
Sul versante musicale, è indubbio che ci siano problemi oggettivi. Nel cast l'unico a uscire del tutto indenne (insieme con Andrea Galli/Gasparo e Renata Campanella/Ines) è il Baldassarre di Simon Lim, che canta e pronuncia bene, con voce sonora e consapevolezza, avendo anche già cantato più volte la parte nella stesura originale. Poi, purtroppo, dopo l'intrigante prova come Ulrica al Festival Verdi [Parma, Un ballo in maschera (Gustavo III), 24/09/2021], Anna Maria Chiuri si cimenta con una parte che mette in luce i difetti e non le dà grandi occasioni per evidenziare i pregi. Sentiamo la fatica nel timbro, la distanza dall'idioma belcantistico, un'artista di qualità che sembra capitata, però, al posto sbagliato nel momento sbagliato. Sebbene questo sia esattamente il suo repertorio, non sembra ben a fuoco nemmeno Celso Albelo, sempre facile nello squillo ma generico nel fraseggio e facile a portamenti di dubbio gusto. Poco fantasioso e incisivo è pure Simone Piazzola, che in “A tanto amor, Leonora” sembra limitarsi a compitare le note. La voce, si sa, è stata privilegiata dalla natura,e sarebbe perfetta per Alfonso, ma pure la musicalità e l'intonazione non sono parse infallibili questa sera. Aggiungiamo che, negli spettacoli che circuitano fra i teatri emiliano-romagnoli (questo aveva debuttato a Piacenza), siamo abituati ad ascoltare La Toscanini e la Cherubini, mentre l'Orchestra Filarmonica Italiana non è parsa all'altezza della situazione, con un suono ruvido e rustico e svarioni frequenti, il coro del Muncipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati, si disimpegna senza lasciar troppo il segno (in Aroldo, per onor di cronaca, aveva convinto molto di più). Forse per questo la direzione di Matteo Beltrami è parsa un po' frettolosa, come a cercare di sopperire con un piglio concitato qualche passo confuso (i finali secondo e terzo non si può dire abbiano brillato). Forse, anche e soprattutto, possiamo tornare al problema di fondo: davvero tagli alla partitura e alterazioni del rapporto fra parola (intesa come senso e come fonema) e musica producono effetti trascurabili sulla fruizione di una partitura? Davvero, se non funziona è colpa solo di chi esegue e non anche di ciò che si esegue? Perché, al di là del brutto finale modificato, ogni taglio che apparentemente abbrevia (e quindi dovrebbe rendere più agile la fruizione) in realtà incide sull'equilibrio interno, sulla musica in rapporto alla drammaturgia, sul suo respiro. Se La favorite è un capolavoro perfettamente compiuto, La favorita arranca fra salti logici e incongruenze musicali, perché se nel linguaggio del belcanto – in parte tramontato all'epoca del lavoro di Jannetti – sono previste riprese, battute di raccordo, nel caso dell'opera francese anche balletti, non sono fronzoli inutili. La loro assenza si sente. Ci si badava meno, forse, quando certo repertorio si apprezzava meno, lo si vedeva in funzione di uno sfoggio vocale garantito nelle grandi arie. Ma, per fortuna, sappiamo che in Donizetti c'è di più, c'è un grande drammaturgo musicale, ci sono soluzioni formidabili che meritano di essere apprezzate. Se ne gioverebbero anche i cantanti e i direttori.
Abbiamo, allora, perso un'occasione? No, abbiamo avuto un'occasione per riflettere, dal vivo, sul valore della Favorite, su ciò che chiede a chi la interpreta, su come per tanti anni è stata vista e mantenuta in repertorio. Ora, è tempo di voltar pagina e mandare in pensione Jannetti: l'accoglienza tiepida del pubblico parmigiano – per quanto rivolta agli esecutori – indirettamente lo conferma.