L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il ritorno dei Puritani

 di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma mette in scena I puritani nell’allestimento di Andrea De Rosa e sotto la direzione di Roberto Abbado. Nel cast vocale le quattro parti principali sono affidate a Jessica Pratt (Elvira), John Osborn (Arturo), Francesco Vassallo (Riccardo) e Nicola Ulivieri (Giorgio).

ROMA, 24 aprile 2022 – I puritani, l’ultimo capolavoro di Vincenzo Bellini, prematuramente strappato alla vita nel 1835, è un’opera di rara energia e potenza espressiva. Lo scorso anno il Costanzi ne aveva già dato una versione in streaming, con un cast quasi identico a quello della presente produzione (https://www.apemusicale.it/joomla/it/recensioni/58-opera/opera-2021/11142-roma-i-puritani-23-01-2021). L’ultima messa in scena con il pubblico in sala, però, risale a oltre trent’anni fa, nel 1990, con Devia e Merritt nei ruoli principali.

Questo allestimento dei Puritani è stato pensato per l’Opera di Roma da Andrea De Rosa, che firma una regia non certo esaltante. Pochi, infatti, sono i momenti visivamente accattivanti, solo qualche tableau sparso qua e là nel corso dell’opera; se si guarda, invece, alle idee cardini della regia, al lavoro sui singoli personaggi, alla loro posizione sul palco, ai movimenti del coro e delle comparse, il tutto appare poco organico, quasi casuale. L’idea scenografica (Nicolas Bovay) su cui si impernia l’intera regia è quella di un interno/esterno perennemente buio, scontornato da strutture imponenti (ma grossolanamente rese, a livello estetico); l’unica fonte di luce sono due grandi scatolati con luci led, speculari l’uno all’altro, uno usato come pedana e l’altro pendente, evocante un soffitto, un lampadario o qualunque cosa necessaria in scena. L’interazione fra i personaggi e questa struttura è l’unico elemento che desta reale interesse nella regia di De Rosa. In tal senso, si può citare il momento in cui Elvira, in abito da sposa, gioca con un enorme velo, illuminata solo dal basso; oppure, durante il finale I, quando Elvira viene letteralmente ‘mummificata’, avvolta nel velo stesso, ed illuminata da sola al centro della scena; infine, l’apertura del III atto, con Arturo che si rotola sulla pedana che si muove e si illumina ad intermittenza, a suggerire i fulmini del temporale. Un’idea registica interessante, in effetti, c’è pure, cioè l’auto-accecamento di Elvira alla fine dell’atto I (un Edipo al femminile), quando la giovane impazzisce per amore; spiace, però, constatare come tale trovata sia poi stata sviluppata certamente non nel migliore dei modi. Una regia, dunque, che non aiuta né accompagna lo spettatore nell’opera, ma che vi si impone un po’ forzatamente, con qualche momento esteticamente accattivante e un’agogica drammaturgica poco o nulla curata.

La direzione dell’opera è affidata a Roberto Abbado, specialista del repertorio belcantistico. Le ragioni dei tagli di alcune parti dell’opera sono ben giustificate nelle dotte note di sala, dove Abbado dà ragione delle sue scelte estetiche sulla base della prassi esecutiva dell’epoca di Bellini. Considerata complessivamente, la direzione di Abbado è tesa, drammatica, vibrante. Un gesto così netto dona linfa alla tensione che Bellini mette in campo in tutti I puritani, un’opera ricca di passaggi che si impennano ritmicamente, creando un senso di perenne suspense che si scioglie, forse, solo con il finale III. Certo, in alcuni momenti Abbado si fa un po’ prendere la mano con il volume dell’orchestra, che appare sovrastare le voci; forse ciò è dovuto al senso vibrante, appunto, con cui Abbado legge I puritani, di cui non riesce sempre a imbrigliare la seducente energia. L’orchestra, da par suo, si segnala per una resa pulita, buona per volume e suono, senza incidenti di sorta.

Il cast vocale si impernia sui due protagonisti, l’Elvira di Jessica Pratt e l’Arturo di John Osborn. La Pratt, tra le cantanti vocalmente migliori, oggi in attività, per questo ruolo, canta una un’Elvira certamente centrata, soprattutto nella tessitura acuta. Pieni e potenti svettano i suoi sovracuti, che sia alla fine dei suoi numeri solistici o nei concertati; la sua voce, tersa e cristallina, si staglia acuta e penetrante, un vero piacere da ascoltare. Considerando, invece, il fraseggio e la performance dei singoli numeri di Elvira, forse la Pratt risulta lievemente incolore in alcuni passaggi qua e là, dove la voce (nella tessitura mediana) si mostra meno compatta e uniforme. Ciò detto, numeri come la polacca («Son vergin vezzosa – in veste di sposa?») e il concertato del finale I, la celeberrima scena della follia del II atto («O rendetemi la speme») e il duetto del III con Arturo, sono i momenti più belli di questo allestimento. John Osborn canta il difficile ruolo di Arturo, pensato per quel prodigio vocale che fu Giovanni Battista Rubini; un ruolo perennemente svettante verso la tessitura acuta, in un canto che lungi dall’essere schiacciato dovrebbe risultare brillante e fluido. Osborn, nel suo arioso d’entrata («A te, o cara, amor talora») che si incardina, poi, in un quartetto, con originale soluzione del numero della cavatina (sull’uso sovente disinvolto dei numeri chiusi tradizionali ne I puritani Abbado discorre nel programma di sala), appare lievemente sottotono, per volume e chiarezza d’emissione. Durante tutto il I atto, in effetti, Osborn sembra quasi rodare la sua voce. Al suo ingresso nel III, però, le cose cambiano nettamente e la linea di canto nella drammatica «A una fonte afflitto e solo» dimostra squillo vocale e fraseggio cromatico. Il seguente duetto con Elvira, in particolare la cabaletta («Vieni fra le mie braccia»), sono elettrizzanti per esecuzione e interpretazione; ma il momento che ogni vero melomane attente con ansia, cioè il fa sovracuto nel «Credeasi misera», non delude le aspettative: dopo un invidiabile tenuta della linea del canto, Osborn sale felinamente nella parte sovracuta ed esegue un limpido fa sovracuto, seguito da un passaggio repentino per tornare nella parte acuta, una volata su alcune note che solo un cantante di notevole esperienza può fare con quella disinvoltura. Francesco Vassallo canta un buon Riccardo: la sua voce morbida e squillante rende ben giustizia al ruolo di un baritono che ha momenti ‘amorosi’, specialmente nella sua cavatina («Ah per sempre io ti perdei»), alla fine della quale regala uno smagliante sovracuto – sacrificando, però, una parte della cadenza. Anche il duetto con Giorgio, mercè soprattutto una direzione cavalcante di Abbado, brilla per energia. A cantare, appunto, il ruolo di Giorgio è Nicola Ulivieri, basso dalla voce alquanto chiara e malleabile, non certo potente ma adatta a una tessitura come quella richiesta dal ruolo. L’interprete fa bene sostanzialmente sempre e vanno segnalati, per bellezza della linea di canto, passaggi del duetto con Elvira del I atto e la sua aria del II («Cinta di rose e dal bel crin disciolto»). Fra i comprimari spicca Irene Savignano nel ruolo di Enrichetta di Francia; gli altri sono Roberto Lorenzi (Gualtiero) e Rodrigo Ortiz (Bruno). Il coro romano si esibisce in una performance altalenante per qualità.

Un allestimento, questo romano dei Puritani, che ha nella sua parte musicale/vocale il miglior pregio e che, comunque, viene applaudito da un pubblico giustamente innamorato della bellezza della musica di Bellini.


 

 

 
 
 

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