Florilegio di colorature
di Luigi Raso
Il barbiere di Siviglia torna con successo al Teatro di San Carlo con un'edizione che guarda al passato.
NAPOLI, 6 luglio 2022 - Si torna all’antico con questa ripresa del Barbiere di Siviglia al San Carlo, nello storico e fortunato allestimento - firmato per la regia dal compianto Filippo Crivelli, con le coloratissime e bellissime scene di Lele Luzzati, i costumi, altrettanto curati e di pregevole fattura, di Santuzza Calì - che debuttò qui nel lontano 1999. Ma il ritorno all’antico è in questo caso progresso? Proviamo ad indagare, spiegare e tentare di fornire qualche risposta.
Partiamo dal dato scenografico e dalla regia. Chi scrive nel 1999 rimase stupito dal profluvio di colori delle ambientazioni luminose e gioiosissime: lo stupore, a distanza di anni, e malgrado le precedenti riprese, non si è affievolito. Le scenografie di quel poeta che è stato Lele Luzzati restituiscono una dimensione favolistica di Siviglia, ilare e candida: vi sono riferimenti agli azulejos andalusi, all’arte mudéjar, ai patii con pergolato, ai sofisticati intrecci in ferro battuto dei balconi, quelli che si incontrano tra le sue stradine bianche e assolate e, soprattutto, a Triana, l’antico quartiere adagiato sul Guadalquivir; poi, a regnare è la sensazione di quella luce accecante propria del meraviglioso capoluogo andaluso, consacrato anche all’opera lirica. Quante opere sono ambientate a Siviglia! Provate a contarle e vi accorgerete che l’elenco è lungo.
Perfettamente innestati nella scenografia i bei costumi disegnati dalla mano esperta di Santuzza Calì: il costume indossato nel finale dell’opera da Rosina sembra mutuato da quello delle sensualissime Madonne sivigliane. Le luci curate da Valerio Tiberi hanno gioco facile nell’esaltare l’elemento coloristico dell’allestimento.
La regia di Crivelli - stasera ripresa da Luca Baracchini - è all’insegna della tradizione, per pochissimo incline a proporre trovate innovative: c’è movimento, discreto ritmo, ma l’idea di fondo apparve già nel 1999 e oggi ancor più, ossequiosa ad una certa tradizione teatrale che strizza con discrezione l’occhio ai frizzi e lazzi. Ad ogni modo, contribuisce, e bene, alla godibilità complessiva dello spettacolo. Gli anni di questo allestimento si notano, ma non incidono sulla gradevolezza e originaria simpatia.
Più articolato il discorso sull’incidenza del “tornare all’antico” per quanto riguarda l’aspetto musicale. Proviamo ad addentrarci: la novità di questa ripresa è costituita dall’affidare a un soprano di coloratura, Jessica Pratt, la parte di Rosina, da più di cinquant’anni stabilmente affidata a mezzosoprani o, più raramente (perché quelli veri son rari!), a contralti.
Occorre aprire una breve parentesi storica. Rossini scrisse la parte di Rosina per il mezzosoprano Geltrude Righetti-Giorgi; tuttavia egli stesso approntò successivamente una trascrizione per il soprano Joséphine Mainvielle-Fodor: la scelta, quindi, non è assolutamente un arbitrio, considerata anche la folta schiera di soprani che l’ha affrontata. L’elenco sarebbe lunghissimo, ed è notissimo. Vi sono però ragioni di opportunità musicale che indurrebbero ad optare per Rosina mezzosoprano: la corda sopranile di Rosina, soprattutto nei concertati, cuore pulsante del Barbiere, potrebbe differenziarsi poco da quello di Berta, soprano anch’ella, tant'è vero che la tradizione, per rispettare la distribuzione delle linee vocali, provedeva semmai l'attribuzione della governante al registro più basso.
Malgrado la preliminare, e perdurante, perplessità sulla scelta, esecutivamente antiquata, bisogna ringraziare Jessica Pratt, beniamina del Teatro San Carlo, per aver dato la disponibilità a sostituire la collega precedentemente scritturata. La sua è una Rosina che potremmo definire siderale, tutta proiettata nel registro acuto e sovracuto della tessitura: la scrittura vocale è farcita da colorature, picchiettati, acuti. L’artiglieria pesante del proprio agguerrito armamentario tecnico è scaricata in questa Rosina vulcanica, effervescente e maliziosa. Davanti a questa girandola di funamboliche colorature si resta stupefatti per la naturalezza e la temerarietà con la quale la Pratt affronta la scrittura canora e le variazioni. Già, le variazioni. All’Atto II, al posto dell’aria "Contro un cor che accende amore", Jessica Pratt, evidentemente d’accordo con Riccardo Frizza, inserisce un’aria di baule, "Deh! Torna mio bene" di Heinrich Proch (1809 - 1878), comunemente conosciute come le temibilissime Variazioni di Proch, delizia di numerosi soprani di coloratura.
La sostituzione dell’aria di Rossini ci lascia perplessi, e non poco. La sulfurea drammaturgia rossiniana subisce una battuta d’arresto, viene ipnotizzata dalle volute delle terribili - per difficoltà e qualità musicale - colorature di Proch che la Pratt affronta con tendenziale precisione, guadagnandosi il meritato tripudio di applausi. Al di sotto del debordante di colorature spinte al parossismo Jessica Pratt fa emergere una Rosina lepida, effervescente e caratterialmente decisa.
La prestazione di Xabier Anduaga, Conte di Almaviva, è in crescendo: dotato di voce dal bel timbro, dal buon peso specifico, sicuro negli acuti e con buon squillo, appare opaco nella cavatina iniziale "Ecco, ridente in cielo", afflitta da qualche forzatura di troppo nell’emissione e da fiorettature non sempre nitide. Si riscatta nel corso della serata, finendo per affrontare e superare con buoni voti, grazie al bel fraseggio e ad acuti centrati e proiettati, l’aria, così irta di difficoltà, "Cessa di più resistere". L’Almaviva del giovanissimo tenore spagnolo (classe 1995) si giova di mezzi vocali interessanti e di un registro acuto spontaneo e ben calibrato; convince di meno nell’aspetto più lirico e cantabile della parte per un’emissione non sempre controllatissima. Nel complesso, una buona prova, da attribuire anche alle doti interpretative e di attore di Anduaga.
È popolaresco e guascone, empatico, genuino e convincente il Figaro di Davide Luciano, il quale si impone per la sontuosità dei propri mezzi vocali, il bel timbro, lo spessore vocale, la sua proiezione, la dizione scolpita, la teatralità dei recitativi. Doti naturali che gli consentono di affrontare la parte di Figaro con una malcelata spavalderia che in taluni momenti ("Guarda don Bartolo! Sembra una statua! Ah ah, dal ridere sto per crepar" nel finale dell’Atto I) porta il baritono italiano a calcare forse la mano spingendo troppo sul pedale dell’intensità sonora.
Cantato correttamente il Don Basilio di Riccardo Fassi, il cui colore timbrico appare però non tanto scuro e adeguato alla parte di Don Basilio. La sua prestazione, precisa e corretta, merita gli applausi ricevuti al termine dello spettacolo.
Carlo Lepore si conferma ancora una volta, a poco più di un mese dalla magnifica prova nei panni di Don Magnifico al Teatro Verdi di Salerno (qui la nostra recensione), l’artista che è, una perfetta sintesi di cantante-attore capace di catalizzare l’attenzione: prodigiosa è la sua capacità di tornire suoni, espressioni, inflessioni all’interno della frase musicale. Ascoltarlo è osservare una varietà di suoni, ora corposi, ora sussurrati, ora (senza abusarne) in falsetto. E poi c’è il sulfureo sillabato, consegnatogli dalla gloriosa scuola di bassi buffi italiana. Gli basta accennare le prime parole del recitativo, pochi movimenti e qualche espressione del viso per essere - più che trasformarsi - in Don Bartolo. Della serata, quello di Carlo Lepore è il personaggio meglio scolpito, quello del quale a colpire sono anche i particolari, le più piccole pieghe delle parte che un artista sa come rendere gemme. "A un dottor della mia sorte" è un trattato riveduto e corretto per cantare e recitare da basso buffo.
Daniela Cappiello è quella che legittimamente si può definire una Berta di lusso, per l’intelligenza dell’interprete e le qualità vocali. Come detto, in questa produzione sconta la “confusione” delle corde vocali sopranili nei concertati. La sua Aria di sorbetto "Il vecchiotto cerca moglie" è gustosa e ben cantata.
Clemente Antonio Daliotti, Giuseppe Scarico e Salvatore Totaro, rispettivamente Fiorello, un ufficiale e un notaro, sono comprimari diligenti e precisi; efficace è il mimo Armando De Ceccon, nei panni di Ambrogio, presenza discreta che attraversa gran parte del melodramma buffo.
La direzione di Riccardo Frizza, al debutto sancarliano nell’opera, ha l’indubbio merito di assicurare coesione e precisione tra buca e palcoscenico; è prodiga nell’evidenziare i ricercati colori che la geniale orchestrazione di Rossini postula; assicura fluidità al discorso musicale. Eppure la sua lettura procede senza quel pizzico di sulfurea e inestinguibile effervescenza di cui la partitura del Barbiere trabocca. Una concertazione, quella di Frizza, molto calibrata, asciutta, ma priva del guizzo, dal tratto surreale, immaginato da Rossini. Il maestro ha dalla sua l’Orchestra del Teatro e prime parti (in particolare i legni) nelle consuete eccellenti condizioni alle quali hanno abituato il pubblico sancarliano.
Poco ma buono vien da dire per riassumere la prova del Coro del San Carlo guidato da José Luis Basso: anche se Rossini riserva alla sezione maschile del Coro pochi interventi, le parti sono affrontate con precisione, suono tornito, ben amalgamato e morbido, in sincrono con orchestra e solisti.
Si applaude a lungo al termine, salutando con esplosioni di entusiasmo i protagonisti dello spettacolo. Jessica Pratt raccoglie un’ovazione.
Figaro e le sue astuzie chiamano a raccolta un folto pubblico, che per ammirare le sue trame e il suo ingegno affronta anche l’asfissiante caldo cittadino di queste giornate. Successo, successo “grasso e tondo”.