Norma, sacerdotessa guerriera
di Roberta Pedrotti
L'esiziale concertazione di Piergiorgio Morandi affossa Norma al Comunale Nouveau di Bologna in coproduzione con il Carlo Felice di Genova. Penalizzata la regia di Stefania Bonfadelli come il cast, che ha in Martina Gresia, Veronica Simeoni, Paolo Antognetti e Benedetta Mezzetto i suoi punti di forza.
BOLOGNA 18 e 19 marzo 2023 - Due mostre. Al Museo Civico Archeologico, fino al primo maggio, sono esposti gli affreschi di Pompei e con essi un'evoluzione di stili in cui soggetti ed elementi ricorrenti, vere e proprie formule standard, possono prender vita con i risultati più diversi nel pennello di diversi pittori. Non è diversa, la storia delle arti figurative, dalla storia della musica, in cui un codice formale ed espressivo può ripetere elementi identici con esiti antitetici, in mano al genio o all'artigiano. Guardiamo due versioni dell'episodio di Achille in Sciro che si appropria delle armi, con eguale sovrapposizione e intreccio di arti, composizione basata su principi simili, affreschi differenti. Pensiamo alla Norma di Bellini, con recitativi, cantabili, strette e cabalette classicamente perfetti ma pure plasticamente sviluppati a creare una drammaturgia.
Al Comunale Nouveau sono esposte fotografie e le riproduzioni di due costumi di Maria Callas: a cento anni dalla nascita, si celebra il mito della Greca dedicandole anche la nuova produzione di una delle opere più legate al suo nome. L'omaggio non deve essere nostalgia, la storia (Verdi docet) serve a guardare avanti, ma, certo, l'evocazione della Divina rischia di essere un'arma a doppio taglio, se non altro per l'impegno e le aspettative che porta con sé. Aspettative che, ahinoi, vengono mortificate fin dalle prime battute, che di recite mitiche non riecheggiano i fasti ma ripetono i tagli, venendo meno proprio a quella consapevolezza del valore della forma, del linguaggio, dell'equilibrio intrinseco dell'opera d'arte che gli affreschi pompeiani ci hanno riportato innanzi agli occhi.
Piergiorgio Morandi ammette tacet e semplificazioni di tradizione, taglia parecchio, fra riprese, code e transizioni, né questo si può dire faciliti i cantanti. Ne è prova il fatto che una delle due interpreti del ruolo eponimo in questa produzione, Martina Gresia, veniva proprio da un debutto nella parte integrale e senza sconti nel quale aveva ben altrimenti potuto mettere in luce le sue qualità. Bellini, osiamo questa convinzione, sapeva il fatto suo, sapeva quel che scriveva, la sua opera conviene darla per intero per poterne apprezzare il senso, il linguaggio, la drammaturgia musicale. Poi, naturalmente, possiamo distinguere fra pratica e grammatica, fra principio ideale e necessità teatrale, ma, purtroppo, le scelte testuali vanno di pari passo con una concertazione che avvilisce costantemente il valore di Norma. Non si percepisce mai uno sviluppo agogico che respiri veramente con il senso del canto e del testo, fermandosi a un incedere meccanico e appesantito che non appare mai “giusto” e naturale, si attarda ostentando un enfatico rallentando in “Sì fino all'ore estreme”, rende goffi i recitativi, trasandato il rapporto fra musica e parola, il fraseggio anche orchestrale anodino e appesantito, tanto che, per fare un esempio, il sublime duetto “Oh, rimembranza” non cresce in un palpito che intrecci nostalgie e speranze erotiche, ma fa piombare bruschi dei pizzicati che arrivano a ostacolare le voci. Dov'è il belcanto neoclassico, il declamato tragico, il fremere drammatico, la catarsi finale che sedusse e commosse Wagner? Non qui, con un'orchestra sottotono, le forme ridotte ad aridi schemi, un costante senso di precarietà negli attacchi e nello stacco dei tempi, un disagio che percorre tutta l'opera, avara di vere emozioni.
Ne fa le spese la regia di Stefania Bonfadelli, ed è un peccato perché la sua idea di mostrare la guerriglia fra gli occupanti e i resistenti, la violenza sulle donne e il loro ruolo come leader spirituali e combattenti è presentata con coerenza e una cifra estetica ben definita (costumi di Valeria Donata Bettella adattati con buon senso alle fisicità delle due compagnie; scene di Serena Rocco; luci di Daniele Naldi; coreografie di Ran Arthur Braun). Tuttavia, se non solo arie duetti e terzetti ma anche recitativi procedono impacciati e zavorrati, è assai arduo per chi è sul palco mantenere il giusto ritmo nell'azione e nella recitazione e molto risulta anestetizzato. La cosa peggiore, però, è sentire la sera della prima qualcuno che limita il commento alla perplessità su divise e tute mimetiche, come se il valore di una rappresentazione si misurasse solo sulla foggia di un abito e non sulla resa di testo e musica insieme; come se il ruolo del direttore fosse secondario rispetto a quello del costumista e che la bacchetta non faccia una gran differenza. L'opera è musica che si fa azione scenica, musica visibile: fa amaramente sorridere constatare quanto sia diffuso atteggiarsi a melomani puristi e tradizionalisti che a parole proclamano il primato delle note e poi ridurre tutto all'impatto di un costume.
Ne fa le spese il cast, che zoppica in più punti e ha i suoi punti di forza costanti in tutte le recite nelle parti cosiddette minori: Paolo Antognetti è un Flavio superbo, timbrato, eloquente, ben proiettato, un potenziale Pollione che rischia seriamente di mettere in ombra il Proconsole in carica; Benedetta Mazzetto, già sentita come Clotilde in autunno per OperaLombardia, ribadisce il bel timbro, i morbidi armonici, l'accento appropriato. Detto questo, la sera della prima (18 marzo) si impone senza difficoltà l'Adalgisa di Veronica Simeoni, che, sebbene si sia allontanata dal belcanto negli ultimi anni e sconti qualche appannamento, rende la parte con eleganza e determinazione. Nel secondo cast, invece, mostra più di un problema Caterina Dellaere: sembra che la tessitura di Adalgisa non faccia per lei e le consigliamo di pensarci bene prima di mantenerla in repertorio. Nell'ultima recita sarà impegnata Aya Wakizono e, avendola riconosciuta in sala la sera del debutto, spiace che non sia stata prevista per più date.
La seconda (19 marzo) la scena è dominata da Martina Gresia, giovanissima rivelazione della produzione lombarda di pochi mesi fa (leggi le recensioni da Brescia e Como). Da quell'esperienza è chiaro che porti in dote i recitativi migliori della serata, un “Sedizïose voci” scandito a dovere, con accento nobile, autorevole, vario, belle sfumature. Del pari, si ricorda il suo “Dormono entrambi” cesellato con sensibilità e gusto e in generale l'ottima tenuta complessiva di una voce di smalto, ricchezza e duttilità rare. Per questo spiace che il ricordo del suo debutto si debba scontrare con l'ostilità del podio, per esempio in un “Casta diva” in cui non incontra un soffice ricamo sonoro, bensì un meccanico grigiore. Norma, lo ha ben dimostrato, non è un cimento precoce per la sua voce, ma pure una dote come la sua andrebbe tutelata nel lavoro di concertazione, un lavoro che deve essere esigente proprio per trovare l'equilibrio più favorevole a tutti, cosa che qui non abbiamo purtroppo riscontrato. Né pare sia stato fatto molto per mettere in luce Francesca Dotto, protagonista alla prima e già avvezza a un repertorio belcantista irto d'insidie e che qui, tuttavia, appare corretta ma opaca nella resa vocale, tesa in acuto e piuttosto ordinaria nell'accento.
Così, in un clima di generale laissez faire, sembrano lasciati a loro stessi i due Pollione: Stefan Pop, il 18 marzo, si disimpegna forte della consuetudine con il ruolo, anche se permane la tendenza a enfatizzare piani non sempre timbrati; Mikheil Sheshaberidze a sfumare non prova nemmeno ed esibisce monolitico un volume notevole. Nicola Ulivieri, alla prima, è un Oroveso un po' troppo baritonale, così come pare eccessivo per Bellini il retrogusto slavo dell'emissione di Vladimir Sazdovski, la sera seguente.
Al netto di possibili sfocature d'attacchi generalizzate in tutta la recita, merita solo lodi il coro del Comunale preparato da Gea Garatti Ansini, di bella pasta sonora.
Applausi tiepidi per entrambe le recite, nessun dissenso. D'altronde, se il finale non si eleva sublime, infiammarsi, nel bene o nel male, è difficile anche per il pubblico.