Gli enigmi di un Faust di plastica
di Roberta Pedrotti
Per il ciclo dedicato a Faust e Goethe intorno al Carnevale, il Maggio Fiorentino propone una riuscita nuova produzione di The Rake's Progress di Stravinskij con un Daniele Gatti in grande spolvero sul podio, un cast ben assortito e una regia che gioca sul nonsense e l'alienazione.
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FIRENZE, 26 marzo 2023 - Neoclassicismo critico o nostalgico, straniamento, canto del cigno postumo dell'opera a numeri chiusi o sua rinascita, satira sociale, mito faustiano, personaggi complessi e insieme bidimensionali, geometrie e pathos. I piani di lettura di The Rake's Progress potrebbero essere innumerevoli, a partire dal testo magnifico e sofisticatissimo che William Auden e Chester Kallman ricavano dal ciclo di dipinti e incisioni di William Hogarth (1697-1764) inserendo il mito faustiano nella parabola del giovanotto che eredita una fortuna e la dissipa fra lussi, bordelli e sale da gioco, fa un matrimonio di convenienza e finisce prima in prigione e poi in manicomio. Ma si tratta di un Faust sui generis, che prende le mosse da Goethe ma ne ribalta gli elementi salvifici in fallimenti: se Gretchen con il suo sacrificio si fa motore quasi inconsapevole di salvezza, l'eterno femminino qui si incarna nella determinata Anne Trulove, che fa di tutto per redimere e confortare Tom, senza alcun risultato; se l'utopia filantropica diventa il bell'attimo fuggente che vince Mefistofele, qui la macchina del pane è insinuata proprio da Nick Shadow e porta il libertino a una rovina lastricata delle migliori intenzioni. E se, infine, Faust si perdeva nel sogno di un'amante mitologica con Elena di Troia, Tom Rakewell trascende l'amore umano volgendosi al fenomeno da baraccone (ma anche l'unico personaggio di buon senso che esce di scena in trionfo). Poi, naturalmente, c'è Stravinskij, che parte con una Toccata in cui sembra di sentir riecheggiare quella dell'Orfeo monteverdiano, poi pare giocare al Settecento, ma anche all'Ottocento belcantista, un po' Mozart, Cimarosa e Paisiello un po' Rossini e Donizetti. Si diverte, però, a scompigliare le carte fra una maschera e l'altra, a incrociare i riferimenti, a sabotare le forme dall'interno con sardonica ironia e allusioni contemporanee, lasciandoci sovente nel dubbio: badate, egli ci crede... o no? È più fasullo o più autentico l'idillio bucolico del primo atto, l'Arcadia immaginaria dell'ormai folle “Adone”, l'accorata aria d'amore con scena, cantabile, tempo di mezzo e cabaletta di Anne o i cori di crapuloni, prostitute, rispettabili cittadini e matti internati? I recitativi - soprattutto quelli della spettrale scena del cimitero - si accompagnano con un moderno pianoforte, come l'autore fece alla prima assoluta veneziana del 1951, o al cembalo, come poi, anche in questo caso come nell'incisione sempre diretta da Stravinskij, con uno spettrale clavicembalo? Pure la parola cembalo in partitura è solo allusiva, perché con una patina antica vuol significare semplicemente strumento a tastiera. Tutto si gioca sul filo dell'ambiguità e Daniele Gatti lo sa bene, riproponendo a Firenze una partitura con la quale vanta una lunga consuetudine e che, è chiaro, ama profondamente (come dargli torto?). Forte dell'ottima risposta dei complessi del Maggio, ecco che fa andare a braccetto una bella densità strumentale e plastici chiaroscuri con una lettura analitica, netta, perfino tagliente e cattiva ove occorra. Eppure, non siamo di fronte a un neoclassicismo raggelato e cinico: basta ascoltare “Quietly night” e “O god, protect dear Tom” per essere tentati di commuoverci, di lasciarci andare al canto delicatamente cesellato di Sara Blanch e alla sapiente tornitura orchestrale. Non fa scoperta ironia, Gatti, ma sa dare trasporto o raffreddare, dosare delicatezza e sfacciataggine con arte, giocando fra zucchero, zolfo e astrazione.
L'ottimo cast fa il resto e dopo aver citato la purezza della linea di Blanch, non si potrà fare a meno di sottolineare la bella prova di Matthew Swensen, che sa essere idiomatico con una schiettezza d'emissione che ben si confà all'ingenua avventatezza del libertino, capace solo di desiderare e rimpiangere, ma non di agire senza l'influenza altrui, buttandosi a capofitto nei più disparati fallimenti. Ne è, allora, perfetta controparte il Nick Shadow di Vito Priante, un po' umano, un po' burattino, sfuggente e avvincente, oltre che assai ben cantato, con una maschera d'ambiguità sulfurea e giocosa che ci fa pensare anche al mondo poetico dell'Histoire du soldat. Istrionica nel miglior senso del termine – e, dato il personaggio, non potrebbe essere altrimenti – la Baba di Adriana di Paola, cui non serve la barba posticcia (anzi, la regia la vuole calva come un manichino o l'automa di Metropolis) per sfoderare tutta la sua strabordante unicità, accompagnando la presenza scenica con una voce contraltile che non teme l'acuto. Molto bene anche la Mother Goose di Marie-Claude Chappuis, così come il Trulove di James Platt, il guardiano del manicomio di Matteo Torcaso, il coro preparato da Lorenzo Fratini e le voci soliste di Giovanni Mazzei, Costanza Antunica, Antonia Fino e Nadia Pirazzini. Solo dal Sellem di Christian Collia avremmo potuto desiderare un po' di smalto e proiezione in più per lo schioccare dei suoi richiamo da banditore d'asta.
Piace, nel complesso, anche l'allestimento firmato per la regia da Frederic Wake-Walker con scene e costumi di Anna Jones, luci di Charlotte Burton e video di Ergo Phizmiz, che fanno fronte alle limitate possibilità della Sala Zubin Mehta. Si possono avanzare delle riserve sul piano squisitamente tecnico delle proiezioni o di alcuni effetti sonori (il rumore dei vetri infranti da Baba era sempre fuori tempo, le immagini sul fondo talvolta non ben allineate) o sulla forza della resa dell'idea di fondo, che poteva emergere un po' annacquata fra mille movimenti e riferimenti. Tuttavia, l'esito complessivo persuade sempre più in corso d'opera vuoi per alcune scene suggestive, vuoi per la singolare affinità che si trova fra la giustapposizione delle immagini a collage e la drammaturgia modellata fra quadri e numeri chiusi molto meno rigidi di quanto potrebbe sembrare. Nel senso di straniamento delle coreografie nonsense e un insistito utilizzo di materiali plastici sembrano il simbolo di un'alienante società usa-e-getta, dannazione di Tom Rakewell, nella quale Anne e il suo vero amore sono elementi estranei incapaci di interferire e in cui invece Baba, con le sue dirette social, sguazza sovrana. Insomma, molta carne al fuoco, talora anche troppa rispetto alla precisione con cui viene colto il bersaglio, ma un'atmosfera generale azzeccata e scorrevole.
Il pubblico recepisce e gradisce: ne è prova un'ultima recita il cui vivissimo successo matura evidentemente anche da un passaparola che non delude le aspettative. Speriamo che, negli incerti del momento, il futuro del Maggio sia luminoso come la risposta del pubblico e non scoraggiato come le sorti di Tom, Nick e Anne.