Appassionata
di Luigi Raso
Manon Lescaut apre la stagione salernitana con la sua passione disperata affidata all'ispirata concertazione di Daniel Oren.
SALERNO, 14 aprile 2023 - Di passione, seppur ‘disperata’ come la definiva Giacomo Puccini, in Manon Lescaut ce n’è tanta. ‘Ci muove la passione’ è il motto del Teatro Giuseppe Verdi di Salerno: naturale, quindi, che un’opera come il primo grande successo (del 1893) del compositore lucchese sia il beneaugurante viatico per l’inaugurazione della stagione lirica 2023 del teatro salernitano.
E di passione ce n’è davvero in abbondanza nella ispiratissima concertazione di Daniel Oren, direttore che conosce l’opera nei meandri delle sue pieghe e che ad ogni esecuzione stupisce per l’intensità della sua lettura, per il languido ed estenuato lirismo che imprime al meraviglioso quarto atto. Sì, questa produzione si regge sulla concertazione di Daniel Oren, il quale, pur farcendola di sonori e fastidiosi incitamenti all’orchestra e ai cantanti, tenta di coinvolgere nella sua lettura interpretativa il Renato Des Grieux di Riccardo Massi e la Manon di Jennifer Rowley, protagonisti poco partecipi e distanti dalla visione dell’opera che ne ha il maestro israeliano. E così, è grazie alla passionalità che Daniel Oren infonde all’orchestra che il duetto tra Manon e Des Grieux dell’atto II ne esce sbalzato, incandescente e travolgente; prima malinconico, poi incalzate e arroventato il meraviglioso intermezzo, tra i momenti, a giudizio di chi scrive, più riusciti dell’intera serata.
E poi c’è l’atto IV, quel miracolo di drammaturgia musicale pucciniana: un atto, benché breve, che si regge teatralmente soltanto su due personaggi, su temi musicali tra i più interessanti che Giacomo Puccini abbia concepito. Ebbene, di questo capolavoro nel capolavoro Oren dà una lettura estenuata, una sottile e lenta trenodia orchestrale che ‘accarezza’ la morte di Manon Lescaut: tempi dilatati, dinamiche esasperate (soprattutto nei pianissimo), fraseggio orchestrale scavato, rallentandi che, come nel finale di La bohème, battuta dopo battuta, accrescono l’angoscia per l’attesa della morte della protagonista. Il rallentamento dell’agogica, in questa Manon Lescaut, procede in sincrono con quello del soffio vitale di Manon: i colori orchestrali si fanno sempre più cupi; gli accordi finali diventano una sorta di lenzuolo bianco che viene adagiato sulle spoglie di Manon nella landa della Louisiana. Con queste premesse, non si può non lodare la prova dell’Orchestra Filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno, precisa, in possesso di buono e caloroso suono orchestrale e, soprattutto, pronta a rispondere a tutte le sollecitazioni di Daniel Oren. Poco a fuoco ad inizio dell’atto I, invece, il Coro del Teatro dell’Opera di Salerno diretto da Francesco Aliberti: dopo l’incertezza iniziale, però, ritrova le giuste coordinate musicali e si distingue, nella scena dell’imbarco delle cortigiane a Le Havre, per l’intensità del canto e la compattezza delle voci.
Ed è un vero peccato, dunque, che a questa interpretazione così vivida, riconoscibile e articolata di Daniel Oren da parte dei due protagonisti non corrispondano adeguati spunti interpretativi, né coinvolgimento emotivo adeguato a quello che Manon Lescaut necessariamente postula.
La Manon Lescaut di Jennifer Rowley, seppur dotata di voce dal bel timbro e di discreto spessore, di acuti solidi, denota un registro grave alquanto sfuocato, dizione da migliorare, difficoltà nell’articolare “In quelle trine morbide” e “Sola, perduta, abbandonata” in un legato idoneo a sostenere la cavata di linee melodiche di grande intensità. Ma, al di là, di queste difficoltà tecniche, a latitare è il personaggio di Manon Lescaut: si deve alla concertazione di Daniel Oren, che dall’orchestra cava tutto ciò che all’interprete vocale difetta, se l’opera si ascolta con qualche coinvolgimento emotivo.
Discorso analogo per Riccardo Massi, Renato Des Griex, il quale, pur vantando buoni mezzi vocali, in apertura stenta a centrare il fuoco della passione che scoppia in Des Grieux per Manon: soltanto corretti in esordio i suoi “Tra voi, belle, brune, bionde” e “Donna non vidi mai”. Si ascolta, poi, un Des Grieux cantato bene, con voce timbrata, solida organizzazione vocale, acuti squillanti, ma, quanto ad interpretazione, con poco fraseggio, sfumature e colori, distante dai suggerimenti provenienti da Daniel Oren e della sua orchestra.
Chi invece, è in sintonia con la visione del concertatore è Vito Priante, nella piccola ma significativa parte di Lescaut: peso vocale adeguato alla scrittura, bel timbro, naturalezza nell’esibire acuti timbrati, sfoggia un nobile legato nell’ombroso duetto con la sorella Manon all’inizio dell’atto II; il suo fraseggio parte dalla parola e su queste incide accenti e colori, dando così vita a un fraseggio analitico e mai banale. Dal punto di vista scenico è particolarmente bravo nel caratterizzare la doppiezza e l’inclinazione al vizio di Lescaut (nel finale dell’atto I la regia lo vuole ubriaco fradicio, barcollante in scena).
Solido e austero Carlo Striuli come Geronte de Ravoir (impegnato nell’atto III anche nella piccola parte del Comandante di Marina): voce dal timbro cupo, ideale per la figura del laido tesoriere generale. Francesco Marsiglia, nelle vesti di Edmondo (atto I), Maestro di ballo (atto II), un Lampionaio (atto III) sfoggia una vocalità tecnicamente sicura, timbro luminoso e gradevole, nonché una adeguata presenza scenica. Nelle parti secondarie, si segnalano l’esperto Angelo Nardinocchi (un oste e Sergente degli Arcieri) e il Musico di Natalia Verniol.
Quanto allo spettacolo, all’interno delle belle scene e agli eleganti costumi realizzati con la consueta cura artigianale da Alfredo Troisi - che restituiscono l’immagine di un’ambientazione settecentesca - la regia di Pier Francesco Maestrini sfrutta gli angusti spazi del Teatro Verdi dando vita a uno spettacolo costruito sulla costante interazione tra i personaggi.
Se qualche trovata – quale, ad esempio, i calci che Manon Lescaut tenta di sferrare a Geronte de Ravoir durante il di lei arresto alla fine dell’atto II – appare francamente plateale ed eccessiva, la tormentata scena della deportazione delle cortigiane - laddove la musica di Puccini piange e si dispera per il loro destino - è raccontata da Maestrini con partecipazione e commozione: le povere donne vengono strattonate, gettate a terra come sacchi, disumanizzate completamente; l’ultima, Giorgetta, non viene imbarcata, perché muore in scena e viene trasportata dietro le quinte senza pietà, come fosse una roba vecchia e inutile.
Al termine, un quasi gremito Teatro Verdi di Salerno decreta un convito successo per tutti, salutando gli artefici di questa produzione con applausi calorosi e prolungati.